Cristo Re dell’universo – Anno B

Legati per essere liberi di donarci l’uno all’altro

di fra Vincenzo Ippolito

La donna non si consegna ad un estraneo quando si perde nell’abbraccio del suo Adamo, né questi deve sentirsi privato della sua libertà nel riconoscere in Eva la costola che gli manca. L’amore lega per generarci alla libertà del dono e ci consegna all’altro per guardare oltre le nostre paure il futuro di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni (18, 33b-37)

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».

Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».


L’ultima domenica dell’anno liturgico è riservata alla solennità di Cristo Re dell’universo. Istituita da Pio XI nel 1925, essa presenta la figura maestosa e solenne di Gesù che sul trono della sua croce regna come Signore del cosmo e della storia. Invitati a “tenere fisso lo sguardo su di lui” (Eb), ci lasciamo ammaestrare dalla parola del Vangelo secondo Giovanni – in questa come in altre particolari celebrazioni dell’anno B, si pensi al Tempo pasquale, il Vangelo secondo Marco lascia il posto al Vangelo secondo Giovanni – perché Cristo istauri in noi e nelle nostre famiglie il suo Regno, donandoci la grazia di essere pietre vive per la costruzione della sua casa che è la Chiesa corpo suo nel mondo.

Una vita consegnata per amore

All’interno dei racconti della passione del Signore (Gv 13-19), il brano odierno (Gv 18,33b-37) è una parte della più lunga narrazione del processo intentato contro Gesù dalle autorità giudaiche: dopo l’arresto (18,1-11) e l’interrogatorio davanti ad Anna e Caifa (18,12-24), il Nazareno è condotto dal procuratore romano Ponzio Pilato (18,28-19,16) che, dopo alterne vicende, sotto le pressioni dei capi dei sacerdoti e dei Giudei, delibera prima lo scambio con Barabba, poi la flagellazione ed, in ultimo, la morte di Gesù. Dal racconto giovanneo Cristo è presentato come il consegnato, in una continua scelta di povertà ed umiliazione che il Figlio di Dio fa propria, in un gioco squallido che mostra tutta la grettezza ed i calcoli degli uomini capaci di strumentalizzare Dio e la sua legge. Dalle mani di Giuda a quelle di Anna per poi passare a Caifa, sommo sacerdote, a Pilato, ai flagellatori finché, nuovamente nelle mani del procuratore, questi “lo consegnò perché fosse crocifisso” (Gv 19,16). Fin dove arriva l’umiliazione di Gesù! Se fa tremare il cuore l’umiltà dell’Incarnazione, ancor di più raggela il sangue la vista di quel volto sfigurato, del corpo piagato del Figlio di Dio fatto uomo. Gesù compare dinanzi ai suoi carnefici con la serenità dell’innocente, consapevole del male che corrode nell’uomo la capacità di discernere il bene.

Stupisce la pace che Gesù vive e trasmette, non accusa, né risponde con violenza alle provocazioni, rimane spesso in silenzio e per questo è beffato, peggio ancora percosso se accenna una risposta volta a chiarire la rettitudine del suo insegnamento. Quale grazia è quella del silenzio per Gesù! Non proferisce parola perché non ha bisogno di dire e testimoniare la verità, la sua vita grida la rettitudine del suo vivere, la verità del suo essere Figlio unigenito del Padre.

È questo il primo inequivocabile dato che la sola presenza di Cristo nel pretorio ci offre: una vita, quella del Figlio di Dio, consegnata per amore. A ben pensarci proprio la consegna rappresenta la chiave di lettura di tutta la vita di Gesù, seme gettato nel terreno del mondo per far frutto in abbondanza nell’obbedienza incondizionata alla volontà del Padre. Consegnato dallo Spirito nel grembo della Vergine che lo accolse e custodì con ineffabile amore, consegnato alle cure amorose di Giuseppe, il credente che non volle, per giustizia e pietà, accettare il titolo di padre di un figlio non generato nella carne sua; consegnato nella vita obbediente e sottomessa di Nazaret è il Fanciullo che cresce, come ogni bambino, in età, sapienza e grazia; consegnato allo Spirito nel deserto, alle folle nella predicazione, ai malati per essersene guarigione e salute, salvezza e fonte di gioia; consegnato nella parola ai discepoli e a quanti assiepavano case e strade, spiagge e monti per ascoltarlo spezzare quel pane di Dio che è la sua vita; consegnato nell’abbraccio del Croce è il nostro Gesù che nel duro legno scopre ed accoglie l’amore che è più forte della morte. Cristo non è davanti a Pilato perché ha sobillato le folle, turbato l’ordine o spinto a disprezzare l’imperatore, nulla di tutto questo. Gesù è davanti al procuratore romano perché nessuno ha voluto credere alla sua consegna per amore, alla sua offerta per il bene dell’uomo.

Pilato, senza saperlo confessa una grande verità “La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”. C’è da far silenzio ascoltando questa parola che il procuratore romano proferisce, un silenzio che dice non solo orrore o ingiustizia, che grida innocenza, rivendicando il rilascio di Colui che è il solo Santo, giusto, esente da ogni tipo di peccato o pur piccola inclinazione al male. Il nostro è un silenzio non di pietà per Gesù, ma di commiserazione per Pilato. Se avesse riconosciuto, o Pilato, di essere stato graziato con la visita di quell’Uomo che definiscono un impostore ed un reso di morte! Se avessi accolto l’opportunità di un confronto franco con la verità che sola può scardinarti dalle false tue sicurezze e che può metterti davanti allo specchio dell’orrore del tuo animo, della disperazione del tuo cuore. Pilato, hai tra le mani il Signore e non lo riconosci, ha davanti il Padrone e tu, servo che credi di avere in potere le sorti della vita altrui, non lo accogli. Quali incoerenza tra le parole e le opere tue: parli di consegna e non vedi l’amore? Guardi l’orrore che si abbatte su un Giusto e non te ne prendi cura? Perché non riconosci un complotto intentato contro un innocente? Preferisci non immischiarti con questioni considerate secondarie rispetto alla sicurezza del tuo potere. Conservare te stesso vale più dell’innocenza di un uomo: è questo che pensi tu, romano estradato in una lontana provincia dell’impero? È così difficile per te comprendere l’opera di Dio, entrare nella sua volontà di salvezza, riconoscere il suo dono e rispondere con docilità? È così difficile prendere le parti degli innocenti, alzare la voce a favore dei poveri, combattere, avendone il potere e le capacità, i soprusi e gli intrighi di quanti per difendere Dio a parola, mettono a morte per porre al sicuro unicamente se stessi? Quale peso ti verrà messo sulle spalle per la tua codardia, quale sigillo la storia porrà sul tuo operato per la tua viltà! Con un gesto sei ricordato, mani inutilmente immerse in un catino per dire l’estraneità tua nella morte di un uomo, l’Uomo dei dolori che ben conosce il patire, dicendoti innocente quando invece tu sei stato l’ultimo anello di questa disumana ed ingiusta catena di consegne!

Difficile capire l’amore?

Pilato, stupito per la presenza di quel Tale che gli è stato condotto all’alba, vuol capire. I Giudeo offrono le credenziali per la condanna, ma lui, entrato nel pretorio, come nell’indole di ogni romano chiede spiegazioni allo stesso imputato. Giovanni disegna bene la scena, la solitudine dei due – nessuno sembra presenziare all’interrogatorio se non la voce narrante – le domande dirette, le risposte ben calibrate da entrambe le parti, un combattimento impari, una lotta tra ineguali. “Che cosa hai fatto?” chiede Pilato mentre sembra misurare con il suo incedere il pretorio, quasi per spaventare l’uomo che è legato (cf. Gv 18,12. 24) alle mani come un assassino. Il mio Dio legato! Le tue mani legate! Quelle mani che hanno creato il mondo, disegnato la volta del cielo, plasmato la polvere sottile del suolo perché l’uomo sorgesse dal nulla, quelle mani lo hanno carezzato già nel desiderio che esistesse, … quelli mani che liberarono dalla schiavitù Israele, aprendo una strada nel deserto, che unsero Saul e Davide dopo di lui, re sopra il suo popolo santo … quelle mani ora sono legate! Se un soldato, ignaro della pena inflitta a chi disobbedisce, le avesse liberate da quei ceppi, le tue mani, o Gesù, non si sarebbero mosse perché dentro di te, nel cuore tuo sei legato dall’amore per me! È l’amore che ti ha legato al Padre e a noi, l’amore che ti impedisce di scappare, di aver paura e di gridare la ribellione dinanzi alla morte. Ma le tue mani legate sono capaci di compiere il solo gesto che mi salva, mi immerge nel lavacro del tuo cuore, quello vale a dire di afferrare il calice e di berlo fino alla feccia … questo fanno le tue mani legate! Tu, legato come uno schiavo, consegnato come un assassino per amore!

Una nuova tessera si aggiunge al mosaico di Giovanni, dopo la consegna, la legatura, simile a quella di Isacco (cf. Gen 22,9). L’una e l’altra tessera sono intrise del rosso della passione, cotte al fuoco dell’amore. È l’amore che genera la consegna e questa diviene vera nel crogiuolo della morte, del rinnegamento a se stessi, del silenzio e dell’abnegazione, dell’umiliazione e della sottomissione percepita e vissuta come servile, ma che in sé nasce dalla fede e stende radici profonde nel cuore stesso di Dio che l’alimenta. La consegna è l’altra faccia del Io accolgo te, perché io ti accolgo se tu ti consegni, così come tu mi accogli se io mi consegno. È così difficile per noi lasciarsi andare nelle mani dell’altro, farsi cadere come il seme nel terreno, come l’acqua di un fiume nel mare. È così difficile per noi consegnarsi senza condizioni, senza risentimenti, nel silenzio dell’amore che tutto accoglie, nell’affidamento povero di pretese e privo di ogni legge. Io mi consegno! C’è da tremare davanti al silenzio del Cristo consegnato, davanti alle sue mani legate per amore. Pilato non riesce a capire dove può giungere l’amore – o forse non vuol capirlo! – e si perde nelle strade di umani raggiri, nei vicoli bui dove la tenebra divora il cuore. Il vero libero nel pretorio è Gesù, libero di dire la verità, di essere se stesso. Cosa deve difendere? Il suo potere? La sua signoria? Suo è il mare e quanto contiene. Il suo esercito? Egli ci ha fatto e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo! Nessuno può togliere la libertà a chi dentro vive di Dio! Nessuno può rubare dal cuore la certezza dell’amore del Padre. Nulla e nessuno può separare la vita nostra dalla vita divina che Egli dona, né la superbia degli uomini né i soprusi dei potenti di turno! Gesù nel pretorio si erge davanti a noi come giudice perché – è questa l’ironia della scena che Giovanni disegna – sul tavolo degli imputati non vi è Gesù, ma Pilato e gli accusatori con lui ed in loro ci siamo noi, incapaci di riconoscere e vedere Dio nella sua perenne consegna nella storia del mondo e nei fatti palesi, pur se nascosti agli occhi increduli dei dubbiosi, della nostra vita. Ma perché mai la dinamica dell’amore che si concede genera ritrosia e malcontento? Perché mai siamo portati a farci violenza per vivere il Vangelo della consegna? È un dono che viene dal Santo essere davanti all’altro come Adamo dinanzi ad Eva senza avvertirlo come nemico ed antagonista, ma come parte di sé, propria carne ed ossa. La donna non si consegna ad un estraneo quando si perde nell’abbraccio del suo Adamo, né questi deve sentirsi privato della sua libertà nel riconoscere in Eva la costola che gli manca. L’amore lega per generarci alla libertà del dono e ci consegna all’altro per guardare oltre le nostre paure il futuro di Dio.

Un regno diverso da quello degli uomini

Per ben due volte il governatore romano interroga Gesù sulla sua signoria – “Sei tu il re dei Giudei?” v. 33; “Dunque tu sei re?” v. 37 – e per altrettante volte, di rimando, il Nazareno chiarisce quale regalità Egli eserciti – “Il mio regno non è di questo mondo […] il mio regno non è di quaggiù” v. 36 – quanto sia diverso, per alcuni aspetti diametralmente opposto, il suo regnare da quella degli uomini. Gesù non dispone di un esercito – al suo seguito sono dodici apostoli e altri bisognosi di guida e sicurezza – né di un trono su cui adagiarsi, di un letto su cui stendersi e riposarsi – “Il Figlio dell’uomo non sa dove posare il capo” – non una spada con la quale difendersi – l’unica che compare nel Getsemani in mano a Pietro viene intimato che venga subito rimessa nel fodero – non ama imporsi,– è questa la radice del suo “Se vuoi” rivolto a chi gli domanda la vita eterna – né comandare, chiede dell’acqua alla Samaritana come un mendicante, viene ospitato in casa da Marta e Maria come un amico. Quando lo si vuol incoronare re per aver donato in abbondanza pane alle folle, scappa sul monte, mentre nell’ultima cena, Lui, Signore e Maestro, cinto di un asciugatoio, lava i piedi ai suoi perché si comprenda senza fraintendimenti che il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita in riscatto per molti (cf. Mc 10,45) e che, sul suo esempio, ogni discepolo deve fare della vita un servizio d’amore ai fratelli.

Nel dialogo con Pilato, Gesù più che dire quello che il suo Regno è, preferisce imboccare la strada contraria ed indicare che il suo Regno non è di questo mondo, né di quaggiù. Egli, infatti, rifiuta tra i suoi l’omologazione mondana e l’equiparazione ai criteri che guidano le relazioni tra gli uomini. La sua è una comunità di eguali, di fratelli che condividono l’amore dello stesso Padre, che sono guidati da un solo Maestro, il Cristo, e che vedono circolare tra loro il medesimo Spirito. Eguali sì, ma ciascuno con doni diversi, con carismi differenti che si mettono a disposizione, sapendo che il proprio dono arricchisce l’altro, anch’egli accresciuto dal dono che accoglie con umiltà.  Disponibilità a donare ed umiltà ad accogliere e questo è l’amore che crea comunione e che disgrega il criterio forza del mondo, le disparità e le differenze. Nel Regno di Cristo non ci sono differenze, ma diversità da armonizzare, doni svariati, complementari tra loro. Il non di questo mondo indica la forza di coesione del potere del Cristo, le modalità dell’esercizio della sua signoria, mentre il non di quaggiù mostra la sorgente che opera, il vigore che sostiene, il fuoco che anima. Tutto viene dall’Alto, perché se non si rinasce dall’alto non si può intendere la novità di Cristo, ogni dono perfetto viene dall’alto visto che è Lui che suscita il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni. Il Regno è di Dio ovvero discende da Lui – né di questo mondo – e conduce l’uomo oltre questo mondo, lassù dove Cristo ci ha preceduto per prepararci un posto.

A differenza di Pilato che non può intendere, noi siamo invitati ad entrare nel Regno di Cristo, nell’esercizio della sua autorità, nella credibilità della sua testimonianza, nella gratuità del suo dono. Non possiamo credere di poter servire Dio e Mammona, di avere le mani piene mentre parliamo del Regno di Cristo che è l’eredità promessa ai poveri. Il Regno di Gesù fuga ogni tipo di violenza anche quando si è incapaci di superare la sofferenza per il dilagare dell’odio nel mondo. Sì, il Regno di Dio fuga anche la violenza come autodifesa perché a nulla serve opporsi al male quando Gesù ha combattuto il male con la forza, all’apparenza perdente, del bene. È nella preghiera che il cuore si plasma alla sconfitta per amore, al sacrificio offerto volontariamente per il bene dell’altro. E tale dinamica è pane quotidiano in famiglia ed in parrocchia, nelle comunità religiose e nei gruppi ecclesiali perché il mondo ha bisogno di testimoni intrepidi del Vangelo della consegna, di audaci seminatori che prendono la dinamica della croce come forza dirompente per costruire una società a misura d’uomo.

Regnare per Gesù è servire ed il servizio nasce dall’amore. Regnare, servire ed amare si rincorrono nel Vangelo perché sono strettamente unite nella vita del Signore. La corona di spine e il mantello di porpora (cf. Gv 19,5) indicano la foggia della sua regalità, i monili del suo trionfo, mentre l’amore che lo consuma dentro lo fa ardere dal desiderio di essere dissetato – si pensi alla sete del Cristo morente, segno del suo desiderio, secondo i padri della Chiesa, di dissetarsi alla sorgente della fede dei credenti – di amare l’uomo sino alla fine (cf. Gv 13,1). È sulla croce che Cristo regna come su un trono e manifesta lo splendore della sua gloria, il suo volto sfigurato è il riflesso del Dio invisibile, il suo corpo consumato nelle agonie della morte l’espressione massima dell’onnipotenza della vita. Cristo regna sulla croce perché elevato attira tutti a sé, per coloro che guardano con fede, dona guarigione e salvezza, riconciliazione e vita in abbondanza. Regna servendo non attraverso delle opere che compie, ma con il dono della sua vita. Regna servendo la sua vita come su un banchetto, offrendola come cibo, come nell’Eucaristia. Regnare è servire e servire è amare, per il Maestro, come anche per il discepolo. La lezione del regnare che consiste nel servire la si apprende nel cenacolo, la sera del tradimento. È lì che Gesù insegna come il modello dei rapporti tra i discepoli sia il suo lavare i piedi, l’essere servi pronti ai lavori più umili ed umilianti. La lezione del servire che è il risvolto esistenziale dell’amore vero è sul lago di Tiberiade, dopo la pesca miracolosa. Solo quando Pietro avrà per tre volte confessato il suo amore, riceverà in dono – lo steso dono che il Padre ha concesso al Figlio – di pascolare le pecore del bel Pastore.

Regnare nel servizio e servire nell’amore è questa la verità per la quale il Figlio di Dio si è fatto carne, quella che libera l’uomo da ogni tipo di schiavitù e lo rende a buon diritto erede del Regno. Solo il bel Pastore che non ricusa di dare la vita per le sue pecore ci può aprire il segreto del suo cuore, quello che Pilato non riuscì a carpire, ma che il nostro Re offre con amore a chi bussa alla porta con la segreta certezza di essere esaudito.




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