XXXIII Domenica del T. O. – B

Per amarsi oltre la morte il segreto è accogliere Cristo, il fine della storia

grano

di fra Vincenzo Ippolito

Il matrimonio è via alla santità, all’incontro con Cristo. È necessario ricordare sempre tra marito e moglie: Io devo aiutare l’altro a raggiungere Cristo, non ad essere la sua pietra di inciampo, ma a collaborare fattivamente perché accolga in sé la santità di Dio.

Dal Vangelo secondo Marco (13, 24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».


 

Sul finire dell’Anno liturgico, la Chiesa ci invita a fissare lo sguardo sulle realtà ultime, dette escatologiche – parola di origine greca che indica proprio le cose ultime. Difatti, le letture bibliche proposte ci conducono a riflettere sulla venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi – è questo il tema anche della prossima domenica, solennità di Cristo re dell’universo – e a guardare come la scena di questo mondo sia destinata a passare e noi con essa, per entrare nell’eternità di Dio. Non si tratta di macabre realtà che vogliono incuterci paura e quasi farci tremare, quanto, invece, di guardare al di là della storia umana la vita senza fine che Dio prepara per i suoi eletti. L’impegno del cristiano nel mondo, non dobbiamo mai dimenticarlo, è determinato proprio dal suo fine soprannaturale, vedere e contemplare Dio in eterno e quando il discepolo affievolisce il suo sguardo e si lascia incantare dalle realtà passeggere, perde l’orizzonte eterno dove Cristo, il Pastore grande delle pecore, assiso alla destra del Padre, lo ha preceduto per preparargli un posto nel suo Regno.

Guardando Gerusalemme

Con la pagina odierna del Vangelo, continuiamo a seguire la descrizione proposta dall’evangelista Marco sugli ultimi momenti della vita del Signore. Il Maestro, dopo la critica degli scribi e la lode delle vedova – Vangelo di Domenica scorsa, cf. Mc 12,38-44 – esce dal tempio. San Marco disegna la scena con una plasticità vivissima che fa trasparire tutta la drammaticità di quanto sta accadendo. Il Maestro, salito sul monte degli Ulivi, è seduto di fronte al tempio e può contemplarne tutta la maestosità, abbracciando, con un colpo d’occhio, la spianata, il santuario e l’intera città. I discepoli sentono l’orgoglio della grande costruzione che si erge dinanzi a loro, ma Gesù, con sguardo profetico, non solo ne annuncia la fine – “non sarà lasciata pietra su pietra che non venga distrutta” v. 2 – ma a Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea che incalzano sull’argomento, dona il suo insegnamento circa gli ultimi tempi. Le parole di Gesù, raccolte dall’Evangelista nel suo tredicesimo capitolo, formano un discorso – il più lungo del Vangelo – una grande catechesi del Maestro su cosa accadrà alla fine del mondo e su come la storia si aprirà al suo compimento, secondo il progetto di Dio. Nei difficili periodi dell’umanità, quali guerre, rivoluzioni, terremoti, carestie e persecuzioni (vv. 5-13) e nella grande tribolazione di Gerusalemme (vv. 14-23), il ritorno glorioso del Signore (vv. 24-27) è fonte di speranza per il discepolo che, imparando dal fico a scrutare i segni dei tempi (vv. 28-32), potrà vigilare per non essere colto di sorpresa nell’ultimo giorno (vv. 33-37).

Dal contesto comprendiamo l’importanza del nostro brano. Non si tratta di una pericope molto lunga, appena nove versetti (24-32), ma, nella struttura dell’intero discorso escatologico, essi possono paragonarsi al cuore in un corpo, pulsano vita ed energie all’intero tessuto del brano, perché il ritorno di Gesù Cristo motiva l’attesa del discepolo, fuga la sua paura dinanzi le grandi calamità, muove l’abbandono a quella Parola che, unica, rimane per sempre.

Gesù Cristo ritornerà nella sua gloria

Nella Professione di fede della Chiesa noi diciamo, riferendoci a Gesù Cristo: “E di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine”. La prima parte del brano odierno fonda proprio quanto noi professiamo in questo articolo del Credo. L’evangelista Marco per dire questo – una cosa è il linguaggio di una definizione dogmatica, altro è, invece, quello della Scrittura, più immediato, esperienziale e narrativo – ricorrendo all’Antico Testamento, utilizza parole ed immagini care alla tradizione profetica. La manifestazione di Dio nella Bibbia è sempre descritta con immagini straordinarie – si pensi alla rivelazione di Dio sul Sinai– che servono per sottolineare la grandiosità dell’evento e, al tempo stesso, la piccolezza dell’uomo, la sua incapacità a gestirne la portata. Il sole che si oscura, la luna che smette di dare luce, la caduta degli astri sono immagini (cf. Mc 13,24) che fanno da cornice al ritorno glorioso di Cristo, al suo apparire nella storia come giudice. Se l’orizzonte è chiaramente desunto dal libro del profeta Daniele (7,13), in Marco riscontriamo come nota dominante la potenza e la gloria che il Figlio dell’uomo manifesta. Il Cristo che appare sulle nubi – “vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” v. 26 – è il Risorto, il Vivente, la gloria che Egli mostra è quella della croce – nell’Apocalisse si parla dell’Agnello immolato, ritto sul trono, cf. Ap 5,6 – e la potenza che tutti potranno vedere è quella della resurrezione che il Padre ha concesso al Figlio per la sua obbedienza (cf. Fil 2,8). La scena rappresenta, quindi, il trionfo del Risorto, della gloria dell’amore che brilla sul suo volto, la vittoria della potenza del Padre che non ha abbandonato il Figlio consegnato all’amore obbediente per la salvezza degli uomini. Si tratta di una scena di una straordinaria bellezza, dove il ritorno del Signore non atterrisce l’uomo, il suo apparire non spinge a nascondersi per vergogna, come accadde per Adamo ed Eva, ma il suo incedere sulle nubi rallegra e compie le attese di quanti, come le vergini sagge, attendono con le lampade piene di olio. Il Signore viene per completare il disegno del Padre sulla creazione, nobilitare la natura dell’uomo decaduto per il peccato, ricompensare gli eletti per la perseveranza della fede nel passare attraverso la grande tribolazione. L’attesa si compie, la promessa si realizza, il tempo trabocca della presenza del Signore.

La parusia – temine che indica la seconda venuta di Cristo – è un’esplosione di speranza. Difatti, il ritorno glorioso di Gesù motiva la nostra speranza e rende operosa la nostra attesa nel mondo. In  tal modo, l’uomo sperimenta come il suo Dio non riesca a stare senza la sua creatura, come si strugga per la sua lontananza, quanto voglia continuare ad elargire la sua misericordia, ma non per un tempo ristretto, quanto, invece, per sempre. Sì, perché quando Dio fa le cose, le fa per sempre, perché l’amore vero è per sempre. Con il ritorno del Signore nella gloria si ha il compimento del tempo perché Cristo che è “la chiave, il centro, il fine della storia umana” (Gaudium et Spes 10), Egli compie il suo ruolo di mediatore e ci conduce nel cuore del Padre. Gesù, infatti, non decreta la fine del mondo, ma indica il suo reale compimento, il fine della storia degli uomini, di ogni creatura che consiste nell’incontrare Dio quale unico Salvatore.

Non la fine del mondo, ma il fine della storia, può sembrare un bisticcio di parole, ma riflettendoci bene si noterà quanto non sia semplice passare dal genere femminile al maschile perché questo non è tanto una precisione solo di grammatica, quanto, invece, si tratta di un cambiamento rilevante di mentalità, di una vera e propria conversione. Se Cristo determina la fine significa che tutto si conclude – ed in parte è così – e l’accento posto sulla distruzione fa nascere la tristezza e l’angoscia nel cuore. Se, invece, diciamo che Cristo è il fine del tempo e della storia, intendiamo affermare che tutto ha inizio con Lui, che senza di Lui brancoliamo nel buio, come pecore senza pastore. È necessario riacquistare questa fondamentale verità di fede che si traduce in un atteggiamento pieno di vita, gioia e speranza nei riguardi del mondo e della propria storia personale, familiare ed ecclesiale. Camminiamo verso Cristo e siamo attratti da Lui, come l’oggetto dell’amore attrae l’amante. La nostra vita non è una sequenza di fatti e di persone che si susseguono, talvolta senza senso, ma un continuo tendere verso Cristo, che rappresenta il compimento delle nostre attese, la realizzazione delle nostre aspettative, il premio per le nostre speranze.

Dobbiamo comprendere – quale grande lezione Cristo impartisce attraverso il Vangelo di oggi! – che quello che a noi sembra termine, per Dio è un nuovo inizio, ma solo se lo vogliamo, lo desideriamo, vi lavoriamo con tutto noi stessi. Una lite, una incomprensione, giornate trascorse senza neppure un’attenzione, incapaci di manifestare cura ed amore non sono il segno della fine imminente di un rapporto, ma il luogo nel quale Cristo si rivela, si fa incontrare e vuole essere visto ed accolto come l’unico capace di rimettere in gioco tutto per ricominciare. Non dobbiamo rassegnarci alla morte dei rapporti, alla fine delle relazioni tra sposi e con i figli. La rassegnazione non esiste per il discepolo di Gesù, mai! Dobbiamo lasciare che Cristo penetri in noi come nostra stessa vita, che mostri la gloria delle sue piaghe, che effonda la potenza della sua misericordia. E nei difficili momenti delle nostre famiglie dobbiamo vederlo vivo, vero, presente, operante, abituando il nostro sguardo ad aspettarlo quando verrà. Se Gesù è il fine da perseguire, andiamo a Lui, lasciamoci attrarre dalla misericordia del suo cuore, permettiamogli di essere nostra meta verso cui corriamo con alacrità, la stella polare del nostro navigare, la sola che ci indica la rotta giusta nel buio della notte. Gesù è la meta, il fine da raggiungere! Non dimentichiamolo mai! Il matrimonio è via alla santità, all’incontro con Cristo. Ci si sposa per raggiungere Gesù, per essere specchio del suo amore tra gli uomini, perché Lui regni in noi per mezzo della sua grazia. Si diventa una carne sola mediante lo Spirito perché la gloria delle croce risplenda sui nostri volti e la forza del suo amore ci trasfiguri, rendendoci creature nuove. È necessario ricordare sempre tra marito e moglie, guardando i propri figli: Io devo aiutare l’altro/a a raggiungere Cristo, non ad essere la sua pietra di inciampo, ma a collaborare fattivamente perché accolga in sé la santità di Dio.

È questa una delle priorità della vita insieme: lasciare che la dinamica della vita di Gesù – accoglierlo come chiave, centro e fine della storia – cambi la nostra esistenza personale e familiare. Solo chi vive con Gesù al centro del cuore non ha paura della sua venuta, perché lo attende con gioia. Solo chi ha trovato in Gesù la chiave di volta della sua vita personale e di coppia, familiare e sociale sperimenta ogni giorno la tensione del sentirsi mai arrivato sulla strada del bene. Solo chi sperimenta il Risorto come fine delle sue azioni, motore del suo impegno, forza del suo cammino riesce a vivere con speranza il proprio impegno nella storia degli uomini, orientandola verso Cristo Signore.

La nostra vita insieme è un cammino verso Cristo? L’attesa dei tempi di Dio scandisce la nostra quotidiana esperienza di fede? Poniamo Cristo come chiave per comprendere i problemi della nostra vita, lasciandoci illuminare dalla sua grazia? È Cristo il centro delle nostre parole, dei gesti e delle tenerezze, delle scelte e delle decisioni? Costruiamo su di Lui e con Lui la nostra famiglia quale Chiesa domestica? Quello che pensiamo e facciamo è fatto e pensato per Cristo? È Lui il termine fisso del nostro cuore, teniamo fissa dinanzi a noi la sua volontà? Cristo è veramente per noi l’unica cosa necessaria? Avvertiamo la sua Presenza, assecondiamo la sua azione, viviamo della sua vita, accogliamo la sua forza?

Raccogliere in unità perfetta

La salvezza che Cristo offre non ha solo un significato personale, come spesso noi crediamo, ma in sé possiede anche una valenza comunitaria. Difatti, la vita che Dio dona non solo è per tutti gli uomini singolarmente presi, ma è finalizzata a fare di tutti un popolo nuovo. Ecco allora la presenza degli angeli nella gloria del Figlio dell’uomo, non come giustizieri implacabili dell’ira di Dio, ma quali messaggeri di gioia per gli eletti, ambasciatori di misericordia, annunciatori e realizzato di unità tra i santi. Il fine del mondo, il compimento della storia non è la solitudine, ma la comunione, l’unità tra gli eletti. E tale comunione, che noi potremmo definire fraternità universale nella santità, è opera di Dio tra gli uomini, dal momento che gli angeli la realizzano per espresso comando del Signore risorto e si ottiene raccogliendo gli eletti “dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (v. 27). Sembra di vedere la grande moltitudine di ogni nazione, tribù, popolo e lingua della visione dell’Apocalisse (7,9). Nessuna discriminazione perché gli eletti provengono da tutta la terra, attratti dal Cristo risorto, chiamati a condividere con Lui la stessa corona di gloria.

Cosa significa essere eletti? Come la forza di attrazione esercitata da Dio per mezzo dei suoi angeli permette di fare unità? Dove si radunano i santi? Il brano marciano non risponde alle nostre domande, ma, in base all’unità della Scrittura possiamo trovare risposta ai nostri dubbi, offrendo certezze per il nostro cammino. Gli eletti “sono quelli che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (Ap 7,14). L’elezione è per i discepoli del Signore, per quanti, assecondando il dono dello Spirito in loro, hanno seguito il Risorto, passando attraverso la porta stretta della sua croce. È la morte a se stessi la strada per la glorificazione, l’umiliazione diviene per il cristiano il trampolino di lancio per il cielo. Lo dice san Paolo indicando in Cristo un modello di umiliazione che motiva la glorificazione del Figlio, il suo nome nuovo e la sua adorazione universale (cf. Fil 2,5-11). Tutti siamo chiamati a santità, ma solo coloro che seguono Gesù divengono partecipi della gloria del suo Regno di luce. E Dio li attrae a sé, li raccoglie perché nulla impedisce di essere attirati, non ci sono zavorre che pesano sui loro cuori, non sono legati alla terra, ma hanno tenuto desto il cuore e, come la sentinella, hanno aspettato lo spuntare dell’aurora.

Dobbiamo lavorare per essere nel numero degli eletti, dobbiamo mettere a frutto la grazia per passare dalla chiamata all’elezione, dall’offerta della santità fatta dal Signore alla santità vissuta con impegno ed audacia. Ma partecipano all’unità del cielo quanti già sulla terra operano come pacifici figli del “Padre che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi”. Operare ed agire già su questa terra come messaggeri di unità, ambasciatori di riconciliazione, annunciatori della volontà di Dio è la questa la strada per divenire eletti. Ecco perché risulta quanto mai necessario esercitarsi già da ora in questo non semplice lavoro – la presentazioni delle realtà ultime deve condurci a vigilare per essere anche noi nel numero degli eletti! – perché la venuta del Figlio, sconosciuta a noi, non ci trovi impreparati. L’unità è una preoccupazione fissa nella mente e nel cuore di Gesù. Non prega forse per l’unità la sera del tradimento, nell’agonia del Getsemani? E, durante la sua vita pubblica, non inviò i discepoli a due a due perché l’unità di parola, di azione e di testimonianza divenisse criterio di veridicità per accogliere con gioia la predicazione evangelica? E Cristo non forse chiese ai suoi di servirsi vicendevolmente perché il potere mondano non disgregasse il suo piccolo gregge? Per essere un giorno nel numero degli eletti, per essere chiamati figli di Dio e partecipare alla gloria del regno dei cieli dobbiamo essere instancabili ambasciatori e costruttori di unità. “Da questo vi riconosceranno – è Gesù stesso a prometterlo – se avrete amore gli uni per gli altri”. La famiglia cristiana è il luogo dove ci si raccoglie in unità, dove le diversità di sensibilità, doni, carismi e capacità si incontrano per il servizio del Regno di Dio.

Perseguo una salvezza personale oppure mi sta a cuore il bene dell’intera mia famiglia? Nella vita di fede, mi faccio vincere dall’egoismo oppure mi preoccupo di come vivono la relazione con Dio tutti coloro che mi sono cari? Gli angeli raccoglieranno gli eletti alla fine dei tempi, io raccolgo nell’unità la mia famiglia, cerco di far prevalere la comprensione nella coppia e perseguo il bene di tutti? Quali sono le estremità che io devo ricondurre all’unità nel rapporto tra marito e moglie ed in famiglia?

Un’attesa nutrita di Parola

Gesù non soddisfa la curiosità di Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea (v. 4) circa il “quando” degli eventi da Lui profetizzati. Difatti, dicendo “Quando però a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” v. 32, Gesù si presenta come il Figlio in tutto soggetto al Padre, obbediente alla sua volontà. In tal modo siamo invitati a fidarci, come fa ed indica Gesù, del Padre, rimetterci alla sua volontà, abbandonarci ai suoi progetti. Dovremmo poter dire “Lo sa il Padre e questo basta!” perché solo rimettendo la nostra causa nelle sue mani potremmo crederci al sicuro, sotto l’ombra delle sue mani. Fidarsi del Padre e riporre in Lui la propria speranza è quanto si chiede al discepolo, dimentico di sé e proteso verso il futuro che Dio solo può disegnare, progettare e realizzare. È questa la libertà dei figli di Dio che ci fa vivere come gli uccelli del cielo e i gigli del campo, perché il Padre sa tutto di noi, di quanto è necessario alla nostra vita e di quello che il nostro cuore desidera. La vita si riveste della luce della speranza perché si vive immersi nel mistero di Dio che è Provvidenza.

Per far questo, lungo il cammino, dobbiamo nutrirci della Parola della Scrittura, non possiamo permetterci di non alimentare la nostra speranza, di non ascoltare e riascoltare la promessa di Dio “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (v. 31). In famiglia è questo il nutrimento che siamo chiamati ad offrirci, la Parola di vita che il Signore mette nelle mani, sulle labbra e nel cuore. Tutto passa della scena di questo mondo, ammonisce san Paolo, ma il discepolo di Cristo deve vivere di quell’unica realtà che non passa, né muta perché rimane in eterno. Mentre il mondo con le sue vicissitudini viene spazzato dall’oblio, ogni parola uscita dalla bocca del Signore conserva il suo effetto, dona continuamente la sua efficacia perché sorgente di vita vera in abbondanza. Nutriamo la nostra attesa della Scrittura e la promessa di Dio motiverà il nostro impegno nel modo, spingendoci ad essere figli che attendono, in santa operosità, la visita, sempre inaspettata, del Signore.  

Il Figlio dell’uomo ci ottenga la grazia di imparare dalla natura a saper attendere i tempi del Padre, collaborando fattivamente nell’essere alberi che, cresciuti lungo i corsi d’acqua dell’amore di Cristo, producono frutti abbondanti per il suo Regno.




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