XXX Domenica del T. O. – B
Dio si ferma quando è chiamato: impariamo a chiedere
di fra Vincenzo Ippolito
Tra gli sposi non deve esistere il rimprovero, neppure nei riguardi dei figli, ma la correzione. Il riprendere prostra nella palude dell’errore compiuto, ma chi corregge guarda con amore nella debolezza dell’altro la propria e la accoglie come egli stesso vorrebbe essere accolto; la correzione è il balsamo che dona possibilità nuova di riscatto e di gioia.
Dal Vangelo secondo Marco (10,46-52)
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
La guarigione del cieco di Gerico chiude il capitolo decimo del Vangelo secondo Marco. A ridosso dei racconti della passione, è un personaggio chiave perché la sua cecità è il segno dell’incapacità dei discepoli – tra questi siamo anche noi! – a credere nella Pasqua di Gesù. Attraverso l’odierno brano evangelico siamo invitati a compiere il cammino dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35): lasciare che il Signore apra i nostri occhi per riconoscere la sua presenza nella vita della nostra famiglia.
La sfida di essere Chiesa di Cristo
Gerico, nella memoria del popolo d’Israele è una città importante. Votata allo sterminio non dalla spada di un esercito valoroso, né dall’arguzia militare di un prode condottiero, vide cadere le sue mura, mentre i leviti portavano l’Arca dell’Alleanza, lodando il nome del Signore (cf. Gs 6,1-21). Gesù vi entra “insieme ai suoi discepoli e a molta folla” (v. 46) e sembra non vi accada nulla di particolare se il Maestro subito riparte. Proprio allora il sipario si apre sulla scena ed il Narratore – l’Evangelista, quasi voce fuori campo – presenta volti e storie di un incontro esemplare nel quale l’uomo, divorato dal mistero delle tenebre, trova in Cristo la “luce per illuminare le gente” (Lc 2,32) e dirigerlo “sulla via della pace” (Lc 1,79).
Il versetto 46 – Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare – presenta non poche tensioni, che servono a san Marco per aumentare in maniera considerevole il pathos della narrazione e così spingere il lettore ad una maggiore partecipazione emotiva al racconto. Gesù è con i discepoli e molta folla, Bartimeo, al contrario è solo, cieco e mendico, fermo sul ciglio della strada questi, di contro, gli altri camminano, si muovono con libertà dietro al Maestro, guardano ciò che compie, pur senza entrare nel mistero della sua identità; dell’uomo viene riportato il nome suo e del padre, degli altri, al di fuori del Maestro, non si dice nulla, sono massa senza nome, senza volto, si sentono le voci, ma risulta impossibile dire a chi appartengano. Non è forse questo il mistero anche della nostra vita, delle nostre famiglie, delle comunità ecclesiali e religiose di cui facciamo parte? Non viviamo spesso contraddizioni che neppure riusciamo a comprendere, incoerenze su cui cerchiamo di sorvolare?
Tutti seguono Gesù, ascoltano la sua parola, vedono i suoi gesti, ma al di fuori della cerchia dei suoi c’è un altro mondo, che desidera il Signore, si strugge per incontrarlo, freme dalla voglia di vederlo. Intorno a Gesù c’è un reticolato che lo trattiene, che vuol contenere la sua opera, limitare la sua azione, far cadere in un campo ben stabilito e che si considera il solo buono il seme della sacca del cuore del Padre che è Gesù. Il mondo, il nostro mondo, i fratelli che al pari di Bartimeo stanno seduti sul bordo delle strade dove ogni giorno noi passiamo incuranti di loro e di quanto si portano dentro, come il sacerdote ed il levita, anche essi sulla via di Gerico (cf. Lc 10,), il mondo nel quale viviamo, la città degli uomini dove abitiamo hanno sete di Dio, lo desiderano con una crescente ansia del cuore, lo attendono senza vederlo venire di lontano, lo invocano senza conoscerlo, lo cercano a tentoni, come ciechi nel buio. Stretti attorno a Gesù, i discepoli e la numerosa folla sono troppo incentrati su di sé per vedere gli altri, le loro difficoltà, la solitudine che li assale, il buio della mente che li consuma, il dubbio che, come una goccia, lentamente buca l’anima. Si tratta di una comunità autoreferenziale, hanno sì Gesù al centro, ma non il suo pensare, i sentimenti suoi, i gesti che scandiscono la seminagione evangelica. Stretti intorno al “loro Gesù” credono di doverlo proteggere perfino dai bambini che chiedono la carezza di una benedizione, son convinti di essere nel giusto perché vivono accanto al Maestro, stanno sulla strada con Lui, ma non ne condividono la dinamica dell’incarnazione, la capacità sua di calarsi in ogni situazione, di compatire ogni umana debolezza, pur senza giustificarla, per arrecare il balsamo di quella misericordia che, unico medicamento, cura le ferite dell’anima. I discepoli sono la Chiesa di Cristo solo se non impediscono al Vangelo di essere annunciato dovunque, solo se non limitano l’onnipotenza della sua grazia, l’orizzonte del suo amore, solo se svuotano a piene mani il tesoro della sua misericordia senza trattenerlo per sé, solo allora appartengono a Gesù, compiono la volontà del Padre suo, sono suoi fratelli, sorelle e madri. Una comunità che non annuncia con franchezza ai lontani la liberazione che il Signore è venuto a portare, che si chiude nel proprio guscio, impaurita nel confrontarsi con le sfide della storia, di assumerle con Cristo e come Lui, in dialogo permanete con un mondo che nasconde, inconsapevolmente, i germi di una vangelo donato ad ogni creatura come promesse di una seminagione più grande ed abbondante, una comunità di discepoli che hanno occhi e non vedono, orecchi e non odono Cristo nei fratelli, tradiscono il mandato del Signore e non sono né sale della terra, né luce del mondo.
È necessario riscoprire la bellezza del nostro essere Chiesa perché il mondo ha nostalgia di Dio. Dobbiamo aprire i nostri ambienti, prima di tutto quelli del cuore e poi quelli delle nostre strutture senza la paura di venire rubati, depauperati di ciò che a noi è stato affidato per l’utilità comune. Dobbiamo essere Chiesa vigilante perché anche sulle strade degli uomini possiamo chiederci e presumere di seguire Gesù Cristo quando, pur stringendolo Pane di vita tra le mani, Parola di salvezza sulle labbra, abbiamo paura e ci vergogniamo del Vangelo, viviamo lo scandalo di un Dio che dona vita morendo, che vince perdendo, che regna servendo.
Un discepolo che fa dell’ascolto la sua vita
Sulla strada, c’è Bartimeo cieco e mendicante, anzi mendicante perché cieco. Nessuno si preoccupa di lui, vive lontano dal chiasso della folla, ripiegato su di sé per la sua malattia, stende la mano chiedendo carità e sperando che chi la elargisce lo faccia come Dio, senza umiliarlo. Sente che c’è Gesù e nel suo cuore fiorisce la speranza di vedere la luce del sole di cui percepisce il calore, la bellezza dei colori che conoscere per la descrizione degli altri. Vuol vedere, ma con i suoi occhi, sperimentare la libertà di non dipendere dalla pietà altrui, dalla loro compassione. Sente o meglio, “ascolta che c’è Gesù” scrive l’Evangelista. Gli occhi sono spenti, ma gli orecchi no, riescono ad ascoltare, a percepire i passi, ogni minimo movimento non lo trova insensibile e distratto perché la cecità lo ha portato a sviluppare altri doni elargiti con eguale cura ed amore dal Creatore.
Solo un cieco come Bartimeo può insegnarci la preziosità di un ascolto fruttuoso! Solo il figlio di Timeo può svelarci il segreto di discernere ciò che è necessario ascoltare. Quell’uomo, infatti, sente tante cose, ma non a tutte apre il cuore e la mente, sente, ma non ascolta se non la buona novella, l’annuncio che nella sua vita, accanto a lui, sulla stessa sua strada c’è Gesù, il Figlio di Davide, Colui che dona la vista ai ciechi, che fa udire i sordi e camminare gli storpi. C’è Gesù – oh com’è dolce questo nome, l’unico capace di elargire consolazione, di effondere misericordia, di spargere salvezza, di concedere guarigione, di sbaragliare gli eserciti di Satana, di fugare le tentazioni e di donare la pace e la vita in abbondanza – Gesù è qui, accanto a lui ed il suo cuore è nella gioia perché già assapora la possibilità della guarigione che Egli può operare con il Dito di Dio. C’è Gesù – i discepoli erano stati inviati ad annunciare che “È vicino a voi il regno di Dio” – è questo l’annuncio della comunità credente, la presenza di Cristo nella storia degli uomini perché la promessa del Risorto prima di ascendere al cielo – “Io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli” Mt 28,20 – è il cardine che regge ogni altro annuncio coraggioso ed incisivo.
Come Dio può salvarmi se è lontano, guarirmi se è distante? Come mi consola se non è presente, mi riempie di tenerezza se non è con me? Dobbiamo sempre ripetere: “Il Signore è con me! Non ho timore che cosa potrà farmi l’uomo? Il Signore è con me e mio aiuto, sfiderò i miei nemici.” (Sal 118,6) e questo dobbiamo ricordarci di continuo, ripeterlo con convinzione, dirlo con trasporto, affermarlo con la fede capace di spostare le montagne: Il Signore è nella tua vita, custodisce i tuoi passi, veglia sui tuo affetti, abbraccia le tue debolezze, cancella le tue colpe. Dobbiamo far nascere sempre nei cuori la speranza che questa consolazione accende. C’è Gesù, il suo nome è salvezza, la sua Presenza conforto, la sua vicinanza redenzione, la sua misericordia consolazione. Sperimentare questo è la sorgente dell’autentica gioia del cuore. Nel buio dell’angoscia, nel tremore dell’inquietudine, nella paura della solitudine c’è Gesù. Nelle cadute e nei fallimenti, nelle incomprensioni e negli errori propri ed altri c’è Gesù. Lungo le strade degli uomini e nel chiasso del mondo, nascosto tra le luci che passano, nei crocicchi dei nostri incontri, c’è Gesù. Nel tuo matrimonio, nell’essere una carne sola, nei tradimenti che cerchi di dimenticare, nell’ansia per il tuo futuro c’è Gesù. Sulla via in salita di una malattia che incalza, nella lentezza di una fede che vacilla, di un rapporto a due squassato dal grigiore della monotonia, c’è Gesù, proprio lì dove non lo attendi, non lo credi presente, nel tuo star fermo, seduto nell’atteggiamento di chi non sa cosa fare, di chi è prostrato dal dubbio e dall’incapacità di rimettersi in discussione c’è Gesù. Non sei tu a cercarlo, ma Lui a venirti incontro, non tu a vederlo, ma Lui a mostrarsi, ad attenderlo non è il tuo cuore, ma il suo a riempire di senso la tua veglia con l’abbondanza delle sue consolazioni.
Gridare senza stancarsi per chiedere misericordia
La reazione del cieco è il suo grido. “Sentendo che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, abbia pietà di me» (v. 47). Non ha ancora la forza di muoversi, vuole non che il suo sguardo si apra alla luce, ma che gli occhi di Gesù siano sopra di lui, che lo guardi, che fissi la sua prostrazione, riconosca la sua cecità, che il suo orecchio, come quello del Dio dell’esodo, senta il suo grido e, vedendo, intervenga con determinazione come salvatore. Bartimeo non parla, né tantomeno bisbiglia, chi lo avrebbe ascoltato? Con tutte le sue forze, con tutto il fiato che ha in gola, grida per vincere il chiacchiericcio della folla, la distrazione degli astanti, l’indifferenza dei discepoli. Grida, alza la voce con forza perché Gesù si accorga che a terra seduto c’è lui – come avrebbe potuto vederlo circondato da tanta gente? – e se Zaccheo sale sul sicomoro per vederlo, egli grida per attirare l’attenzione e farsi vedere. Seduto a terra per la gente non è nessuno, ma devono sentirlo. Egli, pur se tratto di terra come il primo uomo, anche lui ha in sé il soffio di Dio, l’alito della vita divina, non è semplicemente polvere, ma anch’egli è stato in Adamo plasmato dal Signore immagine e somiglianza sua. A terra sì per condizione e per chiedere la pietà di un conforto umano, ma egli è un uomo – potremmo chiederci con Primo Levi Se questo è un uomo? Ma lo è se non per gli altri uomini, per Dio che lo creato ad immagine del suo diletto Figlio! – e allora se è un uomo perché è a terra seduto, perché nessuno si preoccupa di lui e anzi si cerca di farlo zittire?
Dove arriva la cattiveria dell’uomo verso il proprio simile! Non solo angariamo gli altri – la prostrazione di Bartimeo non è solo il segno della cecità naturale, ma anche dell’incapacità delle strutture umane di sollevare i poveri, diritto questo di giustizia prima che obbligo di cristiana carità! – ma, cosa ancora più grave, rimproveriamo coloro che alzano la voce perché i loro diritti vengano affermati, la situazione in cui versano considerata, l’umiliazione cancellata in nome della comune umanità. Come suona ingiusto il rimprovero – non si dice chi lo ha perpetuato, ma si comprende bene che sono i discepoli (non avevano fatto così anche con dei bambini?) e la folla che segue Gesù – ma in nome di chi si rimprovera l’altro, gli si impedisce di incontrare il Signore, di farsi vedere, sentire, toccare? Impedire agli altri di parlare – non c’è cosa che denoti la superbia e l’arroganza più del dire ad una persona Tu stai zitto! Taci, non sai parlare! Neppure conosci quello che dici! – rompere la loro voce, perché frenare la parola altrui è come togliergli il respiro, far ritornare l’altro in polvere dal momento che la voce, modulando il soffio vitale, è in grado di comunicare, proprio attraverso le parole la vita perché della vita le parola sono il segno e la vita costruiscono e donano le parole, quelle vere.
Impedire a Gesù di incontrare i lontani e impedire ai lontani di incontrare Gesù: è questo che fanno, pur senza volerlo, le persone al seguito del Maestro, contrariamente a ciò che Egli chiede. Essi impediscono la relazione con Dio, l’incontro con il suo Cristo, la guarigione dei malati, la salvezza dei dimenticati, la redenzione degli esclusi. Non dovevano forse avvicinare, invece che allontanare, risplendere della sua luce, invece che seminare le tenebre, portare Gesù agli altri e le folle al Maestro come avvenne per la moltiplicazione dei pani quando le mani dei discepoli erano la continuazione di quelle del Signore? Ma chi siamo noi per impedire agli altri di incontrare il Maestro, al seme di germinare nella terra dei cuori, all’acqua della grazia di seguire i nostri sentieri? Quale presunzione è la mia nel dire a colui/colei che mi è accanto stai sbagliando! o, peggio ancora, rimproverarla per ciò che ha compiuto, fosse anche un male, ma forse con buone intenzioni?
Tra i discepoli del Signore, tra gli sposi, non deve esistere il rimprovero, neppure nei riguardi dei figli, ma la correzione e questa sempre dopo aver ben visto ogni situazione. Mentre chi rimprovera si mette su un gradino superiore, guarda dall’alto, chi corregge con amore è spinto dal desiderio di cercare il bene e di aiutare e farsi aiutare nel camminare verso il meglio. Il rimprovero umilia e disprezza il fratello, la correzione, al contrario, lo responsabilizza e lo risolleva dal fallimento; chi rimprovera è spesso portato dall’ira e dalla superbia che soffocano la carità, ma chi corregge è spinto dentro dal desiderio che l’altro lo superi nel pensare e fare sempre il bene; il riprendere prostra nella palude dell’errore compiuto, ma chi corregge guarda con amore nella debolezza dell’altro la propria e la accoglie come egli stesso vorrebbe essere accolto; il rimprovero fa cadere nel baratro del sentirsi inutile, mentre la correzione è il balsamo che dona possibilità nuova di riscatto e di gioia.
Bartimeo, rimproverato con asprezza, non si ferma, ma anzi “gridava ancora più forte” (v. 48). Il Signore mi deve ascoltare, avrà pensato lui, non può essere sordo al mio grido, gli altri non possono soffocare la mia richiesta di pietà, la confessione della mia fede in Gesù quale discendente di Davide, sorgente di salvezza per Israele. Il grido – è questo anche il titolo del celebre dipinto di Edvard Munch che mostra tutta la drammaticità e l’angoscia di un’anima in pena – è il segno più profondo del dolore. Esso nasce dall’intimo di una persona, sgorga dalla fonte nascosta del suo essere, intaccato dal mistero dell’umana sofferenza. Questo compie il cieco, fa nascere la sua voce dall’intimo del suo essere, il suo spasimo dalle profondità del suo animo, il desiderio più nascosto che un uomo possa avere lo palesa senza paura, con coraggio, perché è questo per lui il momento favorevole, ora passa Gesù, il Signore, e non può lasciarsi sfuggire un’occasione come questa. Pietà è quello che chiede, ovvero che il Dio d’Israele riveli in Lui la potenza del suo essere Dio, la benevolenza della sua essenza, la misericordia che lo rende “tremendo nelle imprese, operatore di prodigi”. Chiede che Dio sia il suo Dio, il suo Signore nella cecità, nella prostrazione, nell’umiliazione, nella solitudine, nella morte sociale che gli altri gli fanno sperimentare, nel disprezzo a cui lo condannano. Vuole che Gesù gli sia accanto, gli offra il suo sguardo di misericordia, gli occhi amanti rivolti al ricco siano anche per lui che come uno schiavo alla mano della sua padrona, tiene i suoi “occhi rivolti al Signore nostro Dio perché abbia pietà di noi”.
Non bisogna aver paura di chiedere misericordia – è questo il vero significato del termine pietà – di vincere la sordità dell’altro/a con la richiesta esplicita di aiuto, superando i condizionamenti e soprattutto la vergogna di sentirsi bisognosi. Dobbiamo imparare a chiedere l’amore alla persona che ci sta accanto perché spesso in famiglia parliamo linguaggi diversi che, pur se dettati dallo stesso affetto, si manifestano con parole e gesti differenti.
Un incontro che guarisce
Gesù sente il grido e si ferma. Dio si ferma quando è chiamato, interrompe la sua corsa quando è invocato. La mia preghiera – quanto è potente la mia voce, quella della nostra famiglia quando si raccoglie in preghiera, la supplica di una comunità religiosa o parrocchiale! – è capace di mutare il corso del cammino di Gesù, di frenare la sua corsa verso il compimento della sua missione perché la nostra vita familiare si riempia di quell’amore pietoso, di quella misericordia sorgiva di cui Cristo è la fonte. Quando si bussa al cuore di Gesù invocando il suo amore misericordioso si è sempre ascoltati. Dio non riesce a chiudere le sue mani ai poveri, né volge le spalle a chi ha il cuore ferito perché “a te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno” (Sal 9,35). Il Signore chiede ai suoi di chiamare il cieco, gli stessi che lo hanno zittito, rimproverato, ora sono i messaggeri della misericordia, gli annunciatori del tempo messianico giunto a compimento. È il mistero della Chiesa! Uomini poveri, fragili, investiti da Dio, dalla sua voce potente, dicono a quell’uomo “Coraggio! Alzati, ti chiama!” (v. 49). Cristo non fa nulla senza la Chiesa e non vuole far nulla senza i suoi ministri – Nessuno può dire di avere Dio per Padre se non ha la Chiesa come madre, insegna san Cipriano – potrebbe farne anche a meno, visti i loro peccati, il peccato che li attanaglia, le cadute che continuamente si ripetono, ma non vuole. Dio vuol passare attraverso il cuore dell’altro, la sua voce, la sua debolezza, il suo errore. Quanto è vero questo per gli sposi, per le famiglie che vivono in pienezza la grazia del sacramento ricevuto nella fede! La voce dell’altro mi infonde coraggio, mi risuscita – il testo utilizza lo stesso vocabolo della resurrezione! – mi rende certo della chiamata di Dio. È la voce della persona che mi è accanto ad infondermi forza per balzare in piedi e gettare il mantello, le mie piccole e grandi sicurezze ed incontrare Gesù.
Con gli occhi della fede in cammino verso la Pasqua
Gesù guarisce il cieco per la sua fede e questi “subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (v. 52). È l’epilogo della narrazione che mostra come Bartimeo, risanato dall’amore, segue Cristo nell’amore che lo condurrà al dono della vita. Solo se il Signore risana i nostri occhi, possiamo con consapevolezza seguirlo verso il Calvario; solo la sua misericordia può renderci discepoli, capaci di mettere i nostri piedi sulle sue orme, senza la paura della morte.
Compagni di Bartimeo, dobbiamo gridare il nostro bisogno di misericordia ed accoglierne l’annuncio dalla vita di chi ci sta accanto. Solo così le nostre famiglie diverranno oasi di misericordia, dove il collirio dell’amore rende i nostri occhi capaci di percepire l’invisibile.
Fra Vincenzo Ippolito appartiene all’Ordine dei Frati Minori (1998) ed è presbitero (2008). Licenziato in sacra Scrittura (2008), attualmente è Guardiano del Convento di S. Maria degli Angeli a Nocera Sup. (SA) ed insegna sacra Scrittura al Seminario Metropolitano di Salerno. Da vari anni collabora alla rivista Punto Famiglia con articoli di spiritualità biblica.
Il Vangelo letto in famiglia è una riflessione sulla liturgia della Parola domenicale, declinata in chiave coniugale e familiare. Un modo per prepararsi come famiglia e come come comunità cristiana a vivere l’incontro con Gesù.
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