Jacqueline ha 13 anni quando si innamora di un ragazzo già maggiorenne. Decidono di scappare insieme e lei si accorge di aspettare un figlio. Tornano in famiglia, i genitori di lei, sinti di religione evangelica, accolgono con fatica la notizia ma non hanno dubbi sulla nascita di questo nipote. C’è e deve essere accolto e amato. È una famiglia unita. Jacqueline comincia l’iter per i controlli medici della gravidanza e il ginecologo in questione autonomamente, e non sappiamo in base a quale principio, allerta i servizi sociali. Secondo me a buona ragione. Nel senso che i servizi sociali sono chiamati anche a verificare, in un caso eccezionale come quello di una gravidanza a 13 anni, di poter garantire un supporto qualora fosse necessario. La verifica però diventa una valanga giudiziaria che travolge Jacqueline e la sua famiglia.
Prima trasferiscono la ragazza in una casa-famiglia convincendo i genitori sul fatto che la figlia avrebbe ricevuto una maggiore assistenza. Poi al momento del parto, avvenuto nel maggio scorso, i giudici decidono che la neonata non può stare con la giovanissima mamma che, in quanto minorenne, non può avere la responsabilità genitoriale. Le negano anche la possibilità prevista dalla legge di riconoscere la figlia una volta compiuti 16 anni. A questo punto la famiglia e la sorella maggiorenne dichiarano la loro disponibilità a prendere in affido la nipotina. Ma la proposta – senza alcuna motivazione ragionevole viene respinta, e 28 giorni dopo la nascita – il Tribunale per i minorenni dichiara l’adottabilità della bambina perché “in stato di abbandono”. Con la scusa di una visita di controllo, la bambina viene affidata alla famiglia adottiva.
I genitori decidono di denunciare la grave ingiustizia. Il Movimento Kethane Rom e Sinti per l’Italia aiuta la famiglia e si affidano ad un avvocato che fa il ricorso e va a buon fine. I giudici dichiarano la nullità della sentenza di adottabilità del Tribunale per i Minorenni di Roma, confermando però il collocamento della bimba presso la famiglia affidataria, per non causarle dei traumi, fintantoché non si compia il processo di graduale avvicinamento della piccola alla madre naturale e possano stare finalmente insieme. Sono stati denunciati sia l’assistente sociale che il giudice relatore al tribunale di Perugia.
La storia si presta ad una molteplicità di riflessioni. In primis lo stucchevole buonismo dell’opinione generale secondo cui una ragazzina a 13 anni deve essere libera di vivere tutte le esperienze sessuali che vuole, l’importante sia adeguatamente formata sul modo di “non rovinarsi la vita se arriva un figlio” ma “conoscendo bene tutte le tecniche contraccettive per divertirsi senza pericoli”. E per questo permettiamo che ideologie e case farmaceutiche entrino nelle scuole a dettare legge sull’educazione al sesso dei nostri figli che non ha niente a che vedere con l’educazione all’affettività e alla sessualità.
In secondo luogo trovo davvero insopportabile l’ipocrisia di un sistema legislativo che si preoccupa di aiutare una minorenne in attesa a disfarsi del proprio bambino con l’aborto in tutti i modi possibili, lasciandola all’incuria delle conseguenze psicologiche del gesto e che nello stesso tempo invece allunga le mani della giustizia , in nome di un principio abbastanza generico sull’acerbità genitoriale, sul figlio anche quando la madre decide con l’aiuto della famiglia, di accogliere il bambino.
In terzo luogo, la incomprensibile rottura del patto genitoriale per cui un genitore, diventato in questo caso un nonno o una nonna, non può decidere di occuparsi del nipote e della figlia minorenne qualora si siano accertate tutte le conformità del caso. Mi rendo conto che forse ci sono elementi di diritto che sfuggono alla mia comprensione ma l’esperienza negli anni, anche a contatto con molte storie simili, di famiglie non in grado di occuparsi veramente di minori venuti al mondo in contesti non idonei, mi fa dire che dobbiamo stare attenti a non dare alla magistratura la definizione di depositaria di un sapere assoluto contro un principio familiare di accoglienza e di tutela dei bambini.
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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