Educazione

I figli stanno pagando le colpe dei padri? Adulti, riflettiamo!

di Mariangela Russo

A cosa si deve l’incapacità di empatia, la fatica a “sentirsi” e sentire la vita degli altri, il cinismo che alcuni giovani sperimentano? Nelle tragedie greche, i figli pagavano le colpe dei padri: forse è ora che la nostra generazione di adulti rifletta?

“Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii; se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti”. È da questa considerazione, posta in apertura al saggio di Pierpaolo Pasolini “Lettere luterane”, pubblicato nel 1975, che do avvio alla mia riflessione, provando ad incanalare, a dirigere, ad orientare il flusso di pensieri che mulinano nella mia mente in questi giorni.

In un’Italia sporca di sangue, in cui il sogno del miracolo economico, della ripresa senza limiti, della possibilità di costruire una società ricca, giusta ed equa si è definitivamente infranto contro il piombo delle stragi, e la violenza è divenuta ormai strumento di intimidazione e minaccia, l’intellettuale di Casarsa, voce indomita e scomoda, si interroga sulla condizione dei giovani del suo tempo, che egli definisce “giovani infelici“. Pur non intendendo approfondire in questa sede le motivazioni pasoliniane (che radicano, in sostanza, la presunta “colpa dei padri” in un preciso terreno politico ed ideologico, legato alla storia del Novecento), desidero, però, esporre un pensiero che da questo assunto parta, e che, attraversandolo a partire da prospettive differenti, lo cali nella realtà dei nostri tempi.

Parto da un fatto di cronaca: una sera qualsiasi, di un giorno qualsiasi, un ragazzo – apparentemente – come tanti, brillante a scuola, forse un po’ timido e riservato, ma “assimilabile” alla normalità dei suoi coetanei, dopo avere giocato ad un videogioco, uccide, a sangue freddo, prima il fratellino di dodici anni, poi la madre e infine il padre. Inscena subito dopo una farsa, che crollerà, miseramente, qualche ora dopo, dietro l’insistenza delle domande degli inquirenti.
Un diciassettenne stermina la sua famiglia.
Non sa spiegare perché.
Dice che sentiva “un grande vuoto interiore” e di avere provato, in seno alla sua famiglia “normale”, un costante ed atroce “senso di estraneità”.

Ci spostiamo di qualche chilometro: una ragazza, di ventuno anni, universitaria, pienamente inserita nel tessuto sociale e relazionale dei suoi pari, partorisce, in casa sua, due bimbi, a distanza di un anno l’uno dall’altro, e li seppellisce nel giardino di casa.
Probabilmente, prima di farlo, li uccide. Poi torna alla sua vita.

Tralasciando quanto profondamente mi inquieti, perché inspiegabile per me, il fatto che la mente umana possa arrivare a tali punte di derealizzazione e rimozione della realtà, da figurare prima a sé stessa, poi agli altri, una normalità impossibile e irrealizzabile dopo certi traumi, dico subito che non voglio esprimere alcun giudizio sui protagonisti di queste tristi e terribili storie. Non ne ho le competenze, e la cosa non pertiene a me, che di lavoro sono insegnante, e, in definitiva, non sposterebbe di un millimetro l’asse del discorso. La giustizia farà il suo corso. Un Giudice, a cui tutti daremo conto, stenderà la sua mano pietosa, ma implacabile, su tali miserie umane.

Mi interessa, invece, spostare il focus dell’attenzione su un altro aspetto che accomuna le due vicende: dove erano “gli altri”?
Mentre il diciassettenne si sentiva estraneo e vuoto, non solo alla sua famiglia, ma all’intero consorzio umano, dove erano “gli altri”?
E quando la giovane studentessa universitaria concepiva e portava a termine due gravidanze, e sopprimeva le vite che lei stessa aveva generato, dove erano “gli altri”?
Genitori, parenti, amici, insegnanti? Dove erano “gli adulti”? Dove erano “le madri e i padri”?

Quelli buoni, giusti, capaci di accompagnare i propri figli (e i figli degli altri) nel cammino scosceso della vita e di pesarne l’anima, gli sguardi, i gesti, e di accoglierne ombre e luci? Dove erano?
Possibile che nulla sia trapelato? Possibile che nessuno abbia intuito, visto, sentito? Possibile che nessuno, tra gli adulti, soprattutto, sia riuscito a penetrare la corazza, il muro, la maschera?
Evidentemente sì. E questo mi pare sconvolgente. Una grande e cocente sconfitta. Un dato preoccupante, inquietante, che attesta il dilagare di quella che, secondo me, è la vera “piaga” del nostro tempo: l’indifferenza.

Leggi anche: Per il malessere dei giovani, bisogna ricominciare dagli adulti – Punto Famiglia

Figlia di tempi “liquidi”, di un individualismo sfrenato, di una cieca volontà di affermazione egoistica, di appagamento immediato e narcisistico delle proprie aspirazioni. Tuttavia, figlia anche di una drammatica e profonda incapacità comunicativa, di una grande difficoltà ad aprirsi agli altri, e di essere, a propria volta, contenitori dei loro pensieri e delle loro paure. E questa paura l’abbiamo anche noi, soprattutto noi.

Adulti spaventati, senza radici, né più ali per volare, giunti alla maturità in un secolo venuto dopo “il Secolo breve” (per questo, forse, ancora più breve), cresciuti alla scuola del relativismo, del possibilismo, abbeverati alla fonte di una illusoria onnipotenza che, svelandosi nella sua inconsistente provvisorietà, ci ha trascinati nel baratro della non sussistenza.

Nessuna autorità, né autorevolezza. Non siamo portatori di valori, ideali, sogni. Non conserviamo desideri. Se un tempo esistevano, sono stati infranti, chissà dove.

Gli adulti del nostro tempo vogliono essere giovani per sempre e scimmiottano comportamenti da adolescenti, che scambiano per emancipazione e per modernità, ma che svelano, soprattutto agli occhi dei giovani che li guardano, la loro intrinseca debolezza e il loro smarrimento.

Chiaramente, questo discorso non vale per tutti gli adulti. Molti resistono e non hanno paura di opporsi, di imporsi, anche. Perché se l’alternativa al naufragio è la resistenza, allora meglio lottare che soccombere tutti. Perciò, per tornare all’assunto iniziale, se è vero (e per me lo è) che le colpe dei padri ricadono sui figli, allora i padri di questa generazione devono seriamente interrogarsi sui loro figli. Sulla loro infelicità. Sul loro vuoto. Sulla loro crudeltà, sulla loro efferatezza. Sul loro cinismo, sulla loro incapacità a “sentirsi” e a sentire gli altri.

E la scuola, sede privilegiata di ogni scontro, ma anche nutrice di incontri, di confronti, di scambi che garantiscono la crescita e la formazione degli  individui che la abitano, come una “seconda casa”, o una “casa scelta”, deve farsi carico della loro sofferenza. L’indifferenza non può e non deve camminare nei corridoi delle nostre scuole.

Alla luce di tali fatti, che sempre più spesso si ripetono, e che sconvolgono, oggi più di ieri, per la loro immotivata crudeltà, è necessaria, secondo me, una forte presa di coscienza del mondo adulto. Una assunzione di responsabilità dolorosa, ma necessaria e doverosa. Il coraggio di smettere di recriminare indiscriminatamente (come se questi ragazzi non fossero nostri figli, ma individui catapultati da un mondo alieno, come se non vivessero accanto a noi, come se le loro vite non scorressero mescolandosi alle nostre), di cessare di urlare allo scandalo dei nostri tempi, come se non avessimo parte in causa nella determinazione delle condizioni materiali e ideologiche che hanno permesso tale scandalo.

Di tutto ciò che questi ragazzi sono, di ciò che fanno, ma anche di ciò che non sono e non fanno, noi adulti saremo  sempre, almeno indirettamente, responsabili. Di azioni sbagliate, di omissioni colpevoli, di esempi mancati, di rinuncia a ricoprire una posizione di prestigio, di influenza, di carisma, di guida, che i giovani si aspettano da noi. Colpevole, quindi, a mio avviso, l’atteggiamento di chi, spogliatosi di ogni traccia di autorevolezza e di solennità, di serietà e sobrietà, ma anche, quindi, di ogni responsabilità nel processo educativo, ha accorciato le distanze educative e abbattuto definitivamente il sistema dei ruoli e delle reciproche aspettative che poteva, e può, ancora rappresentare una soluzione al vuoto e all’ amnesia generali.

Allo stesso modo è colpevole chi, tra gli adulti, accusa, rimprovera, storce il naso e guarda questi giovani come “mostri”, senza minimamente chiedersi cosa pensino, provino e, soprattutto, cosa si celi dietro i loro sguardi vuoti (quando lo sono) e dietro i loro silenzi. Colpevole è chi non presta ascolto, chi non tende la mano; chi non si impegna per alleviare la sofferenza degli altri. Colpevole è anche chi si sottrae al dovere etico e morale di farsi, ogni giorno e continuamente, testimonianza ed esempio di rettitudine, onestà, generosità, disponibilità al sacrificio.

Responsabile è sempre chi sceglie la strada più facile, la meno irta e rischiosa. Responsabili siamo sempre noi, padri e madri. Noi adulti. Noi, insegnanti, anche. Non dimentichiamolo mai. Loro, i giovani, si aspettano molto da noi. Come ha detto Edoardo Prati, tiktoker ventenne che legge, analizza e commenta magistralmente i grandi classici del pensiero e della letteratura nel discorso per l’inaugurazione dell’anno scolastico, “voi ci dovete sapere“.
È l’unica strada per la salvezza.




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