EDUCAZIONE

Il disagio dei giovani e la risposta della scuola: cosa penso da insegnante

di Mariangela Russo

Da parecchio tempo, e in varie forme, cerco di fare chiarezza nella mia mente su cosa debba significare, oggi e nella società in cui viviamo, essere insegnante. Sembra un inutile e ozioso gioco intellettuale, magari di chi insegue, come sempre, sogni e ideali, ma io credo fortemente non lo sia affatto. Ho a cuore i giovani e credo molto nella scuola…

Mai come in questi tempi opachi e offuscati, densi di incertezza e di ansia collettiva ed individuale, bisognerebbe che gli insegnanti avessero chiaro il senso del loro esistere.

Non solo della loro funzione, perché su quella credo si possa ragionevolmente raggiungere una certa univocità di intenti; quanto, piuttosto, sul senso della loro esistenza in un sistema ormai profondamente mutato e destinato ad evolvere continuamente.
Cosa significa, dunque, oggi, essere insegnante?

In cosa si traduce, per i giovani di oggi, la possibilità di “lasciare un segno”?
Credo si possa essere concordi sul fatto che la scuola sia ancora, nonostante tutto, lo spazio deputato alla costruzione di un’identità capace di muoversi nel mondo in maniera autonoma, consapevole, consona.
Ciò significa preliminarmente che la scuola è ancora e sempre, in modo inequivocabile e assolutamente non trasferibile, veicolo di conoscenza.

E di conoscenze, di concetti, teorie, numeri e astrattismi di cui la società del presente e del futuro ha un disperato bisogno.

Non credo sia vero che la scuola debba offrire solo, o anche in maggioranza, competenze pratiche o direttamente fruibili nel mondo lavorativo.

Credere che ciò fosse prioritario l’ha notevolmente appesantita, facendola naufragare sotto il peso di innumerevoli incombenze, necessità, obiettivi, traguardi aridi e puramente numerici violentemente “calati dall’alto”, nati sotto il segno del dovere, dell’obbligo, della prestazione.

La scuola deve dare conoscenza e conoscenze, abituare al dubbio, al problema, alla riflessione.
Difendere la categoria della possibilità, del prevedibile che, tuttavia, può non realizzarsi, dell’incidente accidentale, dello scarto, della negazione.

In qualche caso, la scuola può e deve essere custode di verità ultime, inattaccabili.
Deve insegnare la bellezza della speranza, la necessità di un’aspettativa, di una “proiezione” (nel senso filosofico del termine) e, al contempo, l’accettazione e l’elaborazione della frustrazione, dell’aspettativa che non si fa realtà, ma che lascia intravedere nuove, e altrettanto realistiche, possibilità.
Quindi, insegnare è trasmettere conoscenze, instillare la voglia di conoscere per intervenire attivamente nella società del domani, e preparare a reggere l’urto della deviazione, dello scarto, del rifiuto, del “no” anche.

Del no che segna. Che decide, a volte cambiando la vita.

A volte la scuola deve aiutare a ridisegnare percorsi e a riformulare scelte attraverso lo scandaglio di sentieri interiori che non si conoscevano. O che, pur conosciuti, non si ha avuto il coraggio, per svariati motivi, di intraprendere.

La scuola deve essere coraggiosa.

Portare tutti ad essere la versione migliore di se stessi, adulti risolti, realizzati e perfettamente inseriti in un contesto socio-economico-culturale in cui ciascuno possa consapevolmente dare il proprio contributo. Anche per cambiare le cose.

“Eudaimonia”, nel senso letterale del termine, è la felicità che consegue all’atto dell’ascolto del proprio daimon interiore, cioè “vocazione”: un buon insegnante dovrebbe accompagnare l’alunno al raggiungimento di tale condizione. Si tratta di recepire la diversità, di accoglierla, di farne un valore aggiunto a tal punto da essere capaci di veicolarla come ricchezza.

A volte la scuola deve scegliere, non si tratta di indicare fasce di livello o di prestazione.

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Non si tratta più, almeno, di fare solo questo.

Il dibattito è aperto, sempre magmatico e foriero di confronti, che potrebbe coinvolgere la comunità docente e tutti gli attori del processo educativo, su questioni come l’abolizione dei voti e di ogni sistema valutativo che diventi, inevitabilmente, comparazione, paragone. E che esponga, quindi, al pericolo della percezione del fallimento, dell’incapacità, dell’inadeguatezza. E qui arrivo al punto: cosa fa la scuola, oggi, su questo versante?

Cosa dovrebbe fare un insegnante, per essere davvero determinante nel processo di crescita interiore di un alunno, oltre che dell’accrescimento delle sue conoscenze?

O ancora: deve la scuola sentirsi parte della crescita interiore degli alunni?

È necessario che, oggi, in una società dove il malessere dei ragazzi è diventato “rivolta esistenziale” (cito lo psicanalista Ammanniti), la scuola provveda in modo nuovo, più energico, all’emergenza affettiva delle giovani generazioni, alla loro difficoltà a relazionarsi ai pari, agli adulti, al presente e, soprattutto, ad un qualcosa che possa anche solo lontanamente accostarsi all’idea di “futuro”?
La mia risposta è: sì, è necessario, con mezzi, spazi e tempi nuovi.

La sensazione è che, invece, sia una scelta.

Non un obbligo, ma un’opzione che alcuni scelgono consapevolmente di assumere su di sé e altri no.
Il dubbio, il timore è che, dietro a questo atteggiamento di molti docenti, che storcono il naso di fronte a tali argomenti, che accusano le famiglie, i genitori, il contesto educativo, la storia, il progresso, la ricchezza, la tecnologia e tutto ciò che, insomma, sia altro da loro, ci sia anche una inconfessata paura.
Paura di assumersi, fino in fondo, una responsabilità educativa che è prima di tutto umana.
E che non può esplicarsi senza che si ammetta la necessità della perdita di un qualcosa di sé.
Di quella parte, cioè, che investiamo, irrimediabilmente, in ogni relazione in cui crediamo e che crediamo importante e fondante la nostra esistenza, la nostra stessa essenza.

Come esseri umani, innanzitutto.

Come adulti, in secondo luogo.

Come padri e madri, in terzo.

Non nel senso biologico, ovviamente. Né nel senso che insegnamento e genitorialità possano essere confusi, o interscambiati.

Essi hanno sfere di influenza, tempi e modalità differenti. Ma, se mi si consente, hanno un medesimo obiettivo: la venuta al mondo di un individuo capace di esistere, per sé e con sé, con gli altri e per gli altri.

Quella perdita di sé, a cui molti di noi si sottraggono, è quello spazio, intimo ed esclusivo, unico ed irripetibile, in cui ci diamo all’Altro, esponendoci al suo giudizio, alla sua esperienza e alle sue modalità di interpretarla, o alla sua incapacità di farlo.

La restituzione di ciò che abbiamo dato, e perso, ci consentirà di arricchirci attraverso nuove parole, nuovi gesti, nuovi scambi e una rinnovata reciprocità.

I nostri alunni, in qualche modo, a volte incomprensibile anche a loro stessi, si affidano a noi e si aspettano dal mondo adulto risposte di senso.

Anche se dissonanti dal senso, o dal non senso, generale.

Anche se fuori contesto, soprattutto quando il contesto è pari ad un rimbecillimento collettivo, o, peggio, ad un’anestesia emotiva pericolosissima.

Ciò significa che si aspettano ascolto, attenzione, uno sguardo mirato e accogliente in cui possano, essendo “visti” nella loro unicità, a loro volta vedersi e sentirsi legittimati all’esistenza.
E se non ci sporchiamo le mani, se non ci “imbrattiamo” un po’ in questa relazione, se non accettiamo di “guardare almeno un po’ l’“abisso” dei nostri tempi, continuando a proteggere il nostro ego, la nostra presunta “tranquillità”, come potremo davvero operare?

Se il nostro inconfessato obiettivo è quello di rimanere sicuri nel perimetro di un’esistenza in cui crediamo di dare tutto all’Altro, ma in cui in realtà diamo solo ciò che siamo disposti a perdere a costo zero – e che, quindi, fondamentalmente, non conta veramente -, il nostro contributo alla crescita delle nuove generazioni sarà zero.

Ci ostiniamo, a mio parere, a non voler vedere il problema.

Lo giudichiamo, lo valutiamo. Ma non riconosciamo a noi stessi alcuna possibilità di cambiare effettivamente le carte in tavola.

Ci hanno talmente irreggimentati in schemi, definizioni di ruoli, di competenze, di capacità, di limiti e obiettivi, che abbiamo perso fiducia nella possibilità rivoluzionaria di ogni insegnamento.
Di ogni insegnamento porto con forza e competenza, con spessore ed umiltà.

Con umanità. Nel coraggio, estremo ed ultimo, di accettare la perdita di sé.

Come l’insegnamento evangelico.

Non vedo altro orizzonte, onestamente, nei nostri tempi di egoismo, cinismo e paura, entro cui si possa e si debba collocare anche l’esperienza dell’insegnamento.

L’altro, il mio prossimo, è l’alunno.

Ciò che faccio non è per me, ma per lui.

Ed è per me, ma in un altro senso, e in un’altra prospettiva.

Io la forza la trovo lì, come le risposte alle mille domande che mi assillano.

Le teorie degli uomini non bastano a tutto.

Ci vuole Altro.

Ma questa è una posizione personale, me ne rendo conto. Ma la assumo lo stesso.

E nel frattempo, da ogni dove, si pontifica sulla scuola.

Personaggi dubbi, ondivaghi, non presenti a sé stessi, né connessi con la loro interiorità, lanciano anatemi, progetti improbabili, teorie bislacche di ogni tipo.

La scuola non è per tutti. Ma non nel senso in cui questa frase è stata sempre pronunciata, come strumento di classismo e differenziazione sociale, per acuire un divario culturale nel quale siamo cresciuti e di cui siamo figli.

Nel senso che insegnare non è per tutti. Di questi tempi, è dire tutto.




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