Aborto: come siamo arrivati dalla “non punibilità” al “diritto umano”?
La legge n.194/78 serve a garantire la non punibilità di una scelta ma non cancella la verità di un fatto giuridico: la soppressione della vita nascente. Come mai ci troviamo a ragionare nei termini di un “diritto” all’aborto, “diritto umano fondamentale”? Ci rendiamo conto di quanto la narrazione ideologica stia condizionando la percezione stessa della verità biologica, scientifica, umana che deve essere regolata dall’ordinamento giuridico?
Fino alla metà degli anni ’70 la pratica abortiva in Italia era considerata un reato, fatto salvo il caso in cui l’interruzione della gravidanza veniva posta in essere al fine di salvare la vita della gestante e, in taluni casi, anche qualora gravi ragioni di salute lo richiedessero. Era un chiaro caso di contemperamento degli interessi o, se vogliamo, di divergenze di interessi equiparabili: la vita del nascituro e la vita della gestante. In tale caso la decisione di sopprimere una delle due vite comportava la non punibilità dell’azione, l’Interruzione Volontaria della Gravidanza appunto.
Tale impostazione ricevette l’avallo della Corte Costituzionale nel 1975, quando, con la sentenza n. 27 la Consulta, dopo aver riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela del concepito nell’art. 2 Cost., il quale mira a salvaguardare i diritti inviolabili dell’uomo, affermò, ciononostante, che “[…] non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”.
Si consentiva, in altri termini, la soppressione del feto quando la gravidanza implicasse danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della donna, sancendo così, implicitamente, il principio, poi ripreso dalla successiva legge n. 194/78, della prevalenza della vita della donna su quella del feto.
L’entrata in vigore della legge n.194/78 ha formalmente esteso i casi di “non punibilità” dell’Interruzione Volontaria di Gravidanza purché esercitata entro 90 giorni dal concepimento, fermo restando l’impegno dello Stato, come recita del resto il titolo della legge “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” a rimuovere gli ostacoli all’esercizio del diritto alla vita, beninteso non il contrario…
Un difficile punto di equilibrio, un equilibrio di diritto positivo (cioè, della norma valida in un ordinamento giuridico), che prescinde da valutazioni di carattere biologico. Il concepito è un essere umano in formazione, il principio della vita ha avuto inizio e la decisione circa la libertà di interrompere il processo è decisa esclusivamente sulla base di una maggioranza parlamentare.
Restiamo tuttavia nell’ambito della “non punibilità”, per intenderci, quella situazione particolare – pur in presenza di una condotta violata dall’ordinamento (nel caso specifico un omicidio) – in cui l’art. 384 del Codice penale ritiene che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.
Si tratta di una causa di non punibilità di carattere soggettivo, in quanto si riferisce alla condizione personale dell’autore del reato e come tale non si estende agli eventuali concorrenti. Alcuni autori ritengono che configuri un’ipotesi speciale dello stato di necessità, normata all’art. 54 del Codice penale.
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I termini della questione sono chiari: ci sono due vite, una in formazione (il nascituro) e una già pienamente titolare di diritti (la donna gestante) dove la seconda opera nell’ambito di ciò che l’ordinamento le consente o non le consente di fare: non può uccidere nessuno, ad eccezione del nascituro che porta in grembo purché sussistano determinate condizioni, ovvero il decorso del tempo (90 giorni) e “la necessità di salvare sé medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.
Il richiamo alla lettera dell’art.384 c.p. è chiaramente una forzatura, ma aiuta a capire bene i termini della questione: la donna gestante può decidere di procedere con l’IVG con la finalità di salvare sé stessa “da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore”.
Nella prima ipotesi pensiamo alle difficoltà economiche, alle condizioni lavorative o di carriera, all’esercizio – più banalmente – della capacità della piena autodeterminazione rispetto alle proprie scelte di vita; nella seconda ai condizionamenti sociali che in passato, più che oggi, possono turbare la percezione della donna nel contesto familiare o di vita nel caso di una gravidanza “inattesa”.
Siamo partiti da questo; i termini della questione sono questi. Come mai ci troviamo a ragionare nei termini di un “diritto” all’aborto e, addirittura di un “diritto umano fondamentale”?
Ci rendiamo conto di quanto la narrazione ideologica stia condizionando la percezione stessa della verità biologica, scientifica, umana che deve essere regolata dall’ordinamento giuridico?
Al di là delle posizioni più o meno aperturiste sull’aborto, è grave che la percezione del fatto giuridico venga completamente alterata da questa narrazione.
La legge n.194/78 serve a garantire la non punibilità di una scelta, ma non cancella la verità di un fatto giuridico: la soppressione della vita nascente.
Che la soppressione della vita nascente possa essere non soltanto “non punibile” ma addirittura un “diritto”, e per qualcuno un “diritto umano” è in netto contrasto con la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che all’art. 3 recita espressamente che “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.
Le ragioni di questa dichiarazione sono chiarite nel preambolo:
“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione”. La dichiarazione fu emanata il 10 gennaio 1948, la memoria di quello che poteva accadere con l’abuso del diritto, della volontà delle maggioranze parlamentari, era ancora forte nella mente di tutti. Si avvertì, però, il bisogno di scriverlo. Ora, pare, si avverte il bisogno di ignorarlo pur di giustificare la propria propaganda. Una propaganda che fa il male non soltanto del nascituro ma anche della donna a cui viene imposta la non conoscenza della verità per facilitarne una scelta innaturale. È dura parlarne in questi termini, è dura farlo anche al pensiero di quanti drammi si celano di fronte a una scelta così dolorosa, ma negarne la gravità non aiuta di certo né ad alleggerire la coscienza né ad esercitare in maniera autentica la propria libertà.
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