Il papà di Giulia Cecchetin, Gino e i genitori di Filippo Turetta, Nicola ed Elisabetta, condividono soprattutto il dolore. Qualcuno può obiettare che intanto i Turetta hanno un figlio vivo, sì è vero ma etichettato ormai da tutti come il mostro. In questi casi possiamo dire che qualunque sia la pena che Filippo riceverà per il suo atto efferato, essi sono già condannati all’ergastolo del dolore. Come cancellare questa tragedia? Cosa fare davanti ad un figlio che ha confessato di aver ucciso l’ex fidanzata? Non sono pronti ad incontrarlo ha comunicato l’avvocato Giovanni Caruso.
In tutta questa drammatica vicenda una cosa è certa: il male quando sfodera la sua forza prorompente come nel caso dell’omicidio di Giulia lascia sul campo innumerevoli vittime. È presto per parlare di perdono, lo so ma è l’unica strada possibile per spezzare la catena della violenza ed accendere una flebile luce nel buio della disperazione. Mentre lo scrivo sento le mie dita farsi ad ogni tasto sempre più pesanti. Come si può perdonare una violenza così efferata? Come si può lasciar morire una donna in questo modo così doloroso prolungando l’agonia per ore?
Qualche anno fa ho letto il libro scritto da Pietro Maso – “Il male ero io” edito da Mondadori – che a 17 anni, il 17 aprile 1991, uccise insieme ad altri tre amici i genitori massacrandoli con un tubo di ferro. Una ferocia inaudita. “Un’ipertrofia narcisistica” fu la definizione che Vittorino Andreoli, famoso psichiatra, inserì nella sua perizia del giovane Pietro.
Nel libro Pietro racconta dell’esperienza del carcere: “Ci sono corridoi profondi e bui. E muri sporchi di piscio e sangue, di cibo e sputi. Ci sono porte di legno grosso, scuro, con cerniere di ferro. Quando si aprono quella voce rauca, assordante, volgare, pare un urlo vomitato dalla pancia di un mostro. Ma quello che non riuscirò mai a cancellare è l’odore: quel puzzo che ti si appiccica addosso. Ti sporca dentro. È puzzo di carne umana, marcia, di cancrena aperta”.
Un giorno ascolta alla radio don Guido Todeschini, direttore di Telepace, stava parlando proprio di lui. Il prete diceva: “Che facciamo, lo abbandoniamo, lo seppelliamo vivo come meriterebbe o gli tendiamo la mano e cerchiamo di recuperarlo, tenendo conto della sua giovane età? Certo, in questo momento è più facile essere giustizialisti che muoversi al perdono. Ma se noi lo lasciamo lì in carcere, dimenticato, noi commettiamo lo stesso delitto”. Don Guido lo cerca, gli scrive delle lettere, chiede di incontrarlo. Racconta Pietro: “Io, sepolto vivo. Odiato. Rinnegato. Dimenticato. Io che quando arrivava il giorno dei colloqui mi rintanavo in cella in completa solitudine, ora avevo qualcuno che si interessava a me. Accettai”.
L’incontro fu l’inizio di una nuova vita: “Lo ricordo come fosse ieri. (…) Davanti a me c’è un uomo sulla cinquantina, alto circa un metro e settanta, corporatura normale. Indossa l’abito nero con il colletto bianco. Quando faccio per entrare lui, invece di ritrarsi come ero abituato a veder fare, mi viene incontro. Mi abbraccia. Non era mai successo”. Da quel momento don Guido va ogni sabato al carcere. È sempre Pietro che racconta: “a volte era paterno, altre duro, aspro. Non sapevo mai cosa aspettarmi. Ma c’era sempre. Non ha mai saltato un sabato. La sua fede, la sua tenacia, mi hanno dato una forza incredibile. Se lui faceva questo per me, dovevo diventare degno del suo sacrificio”. Alla fine, anche le sorelle di Pietro lo hanno perdonato.
C’è voluto tempo, 22 anni di carcere, tanta tenacia e tanta fede. La giustizia ha fatto il suo corso e l’amore il suo. A volte come cristiani lo dimentichiamo. Siamo chiamai ad accendere una luce nel buio più pesto, a guardare tutto con gli occhi della fede, ad avere uno sguardo carico di misericordia che non dimentica né copre il male ma lo trasforma con la fiducia e la caparbietà di don Guido. Io spero che anche per Filippo e il papà di Giulia si possa accendere un giorno la luce del pentimento e del perdono.
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