EDUCAZIONE DEI GIOVANI

Chiedo agli alunni: “Cos’è l’amore per voi?”; le loro risposte mi sorprendono

di Mariangela Russo

Si può parlare di amore a scuola? L’input mi viene offerto dalla lettura, durante le vacanze estive, di un testo tra i più particolari della letteratura europea: Le notti bianche, di Dostoevskij. Ne è venuto fuori un dibattito denso ed interessante. Cos’è per te l’amore? Questa è stata la mia prima domanda.

Si può insegnare l’amore? Lo si può imparare? Si può imparare a riconoscerne i segni, i ‘sintomi’, i segnali? E, soprattutto, ancora una volta, che ruolo può avere la scuola nel faticoso cammino di costruzione del ‘Se’ amante’ (mi si passi l’espressione, da me coniata) che ogni adolescente, anche suo malgrado, intraprende?

La risposta, coraggiosa ed audace, non si fa aspettare: sì, è possibile. 

È possibile insegnare l’amore. È possibile imparare a viverlo, a declinarlo nelle sue mille varianti. È possibile riconoscerlo, oltre che sentirlo. È doveroso.

Per la scuola, per coloro che la vivono, che la respirano, che la impersonano, ancora di più.
E i ragazzi hanno molto da raccontare.

Non è vero che non ascoltano, non è vero che non partecipano. Non è vero che voltano lo sguardo dall’altra parte. I ragazzi il nostro sguardo lo cercano. Se comprendono che da quello sguardo può provenire condivisione, o anche scontro. Purché interessato ed autentico. Purché l’incontro, o lo scontro, muova da un terreno partecipato.

Questa volta, l’input mi viene offerto dalla lettura, durante le vacanze estive, di un testo tra i più particolari della letteratura europea: Le notti bianche, di Dostoevskij.

Opera giovanile del grande autore russo, pubblicata nel 1848, il racconto, che lo stesso Dostoevskij definisce “romanzo sentimentale”, si snoda attraverso quattro notti nella cornice di una San Pietroburgo che ha già i tratti di una città dalla vita complessa ed articolata.
Il protagonista è, appunto, un sognatore, un giovane intellettuale che conduce la sua esistenza ai margini della società umana, preferendo la notte al giorno, come teatro delle sue passeggiate e delle sue riflessioni, e scoprendosi, soprattutto, uno spettatore della vita altrui, piuttosto che protagonista della sua.

E di questo osservare la vita degli altri, come lui stesso confesserà a colei che presto diventerà l’anima femminile delle sue notti e oggetto del suo desiderio, se ne farà scrupolo e quasi vergogna: “[…] in certi momenti mi opprime una tale angoscia, perché comincio a credere che non sarò mai in grado di vivere una vita reale […] E intanto senti che attorno a te rumoreggia e turbina nel vortice della vita la folla umana, senti, vedi come vivono gli uomini […] Mentre la trepida fantasia è così cupa e monotona fino alla volgarità, schiava di un’ombra, di un’idea”.

Avevo chiesto ai ragazzi di preparare un lavoro di esposizione dei libri letti, in cui esprimessero anche le loro opinioni e i suggerimenti che dalla lettura avessero tratto.

Ne è venuto fuori un dibattito denso ed interessante, che ha potuto spaziare dal racconto delle esperienze personali al confronto su temi di portata più generale.

Cos’è per te l’amore? Questa è stata la mia prima domanda.

Con stupore, ho ascoltato dalle voci di questi diciassettenni, che ho visto arrivare qualche anno fa tra questi banchi poco più che ragazzini, e che ho visto navigare in mezzo al covid e a mille altre tempeste, che l’amore è un sentimento disinteressato, è un darsi senza riserve. Esso si nutre di fiducia, di rispetto, di condivisione, di stima.

L’amore, dicevamo, è disinteressato. Ma è anche incondizionato? Lo è sempre? Per tutti e nei confronti di tutti? Le mie domande incalzavano. 

A questo punto il coro di voci si è fatto più silente e rarefatto: ognuno “sapeva” cosa l’amore potesse essere e, soprattutto, cosa non dovesse essere, ma, di fronte alla prospettiva di una totalità assoluta e incondizionata della qualità dell’amore donato, i volti si sono fatti più attenti.
Cosa vuol dire “amare incondizionatamente” una persona? Cosa può voler significare a diciassettenne anni, oggi?

Amare incondizionatamente è “amare nonostante tutto”, amare oltre ogni difetto, ogni debolezza, ogni imperfezione.

Amare incondizionatamente è andare oltre i progetti che possiamo avere riguardo al futuro, e che inevitabilmente ricadono sul futuro di chi amiamo, e rinunciare ad essi, se la felicità dell’altro e il suo benessere sono altrove.

Anche se fosse lontano da noi.

Leggi anche: Settembre: per un’insegnante l’inizio della scuola è sempre tempo di riflessioni (puntofamiglia.net)

In poche parole, amare incondizionatamente è amare l’altro nella sua libertà, nelle sue infinite possibilità di essere e di non essere, di volere o non volere, di potere o non voler potere. 

È amare l’altro, senza pensare a sé; è realizzare, nella sua forma più pura, l’assioma per cui conta infinitamente di più ciò che si è donato di quanto si sia ricevuto.

E che la vera ricompensa dell’amore dato è nell’amore stesso, nel gesto stesso della mano che ha accolto e che ha offerto riparo e conforto.

In parole ancora più semplici ed universali, amare incondizionatamente è amare come Dio ci ama: nella piena libertà che ognuno di noi ha di conformarsi alla Sua volontà e al Suo disegno, ma anche di non farlo. 

È amare aspettando. Ed è trovare in quell’attesa ciò che basta per continuare ad attendere.
A questo punto la domanda: chi può amare così? Tutti? Forse no.

E allora ci siamo chiesti: chi può? Abbiamo convenuto che solo i nostri genitori possano, nel migliore dei casi, anzi, nelle migliori condizioni possibili, amarci così.

Se tutto va bene, e se siamo fortunati.

Abbiamo ragionato insieme sul fatto che “Amor vincit omnia” è un concetto oggi pericolosamente frainteso.
Il principio per cui “se mi ami, accetti tutto di me” è diventato un rischioso trend, in nome del quale si rischia di giustificare ogni sorta di prevaricazione, di abuso, di prepotenza, di violenza.
Nell’universo dei giovani, dei miei ragazzi, dei miei figli, l’amore è diventato “amore tossico” e la persona con cui ci si accompagna “malessere”, quando assume, appunto, i tratti dell’individuo che esige, in nome di un presunto sentimento, di controllare e gestire la vita dell’altro.
Abbiamo parlato, ci siamo confrontati, abbiamo ascoltato le opinioni, le storie, le riflessioni di chiunque abbia voluto partecipare.

Nel racconto di Dostoevskij il protagonista si innamora al primo sguardo della giovane e bella Nastenka; i due si incontrano e si raccontano, aprendo i loro cuori l’una all’altro.
Poi, però, il sogno sbatte violentemente contro la realtà: Nastenka ritrova l’uomo che stava aspettando e lascia per sempre il sognatore.

Ella è convinta, però, che lui non nutrirà per lei alcun rancore: chi ama non può odiare, e il ricordo di chi si è amato non può mai tingersi di odio o vendetta.

E allora, qual è la “giusta” forma di amore? Che non diventi dipendenza né prepotenza? Che sia rispetto per sé stessi e, insieme, attesa dell’altro? L’amore che nasce dalla consapevolezza di sé. Del proprio valore come individuo, come persona. Della propria importanza come anello di un sistema complesso e sofisticato, che è il consorzio umano. Dell’infinita ricchezza di cui ognuno è portatore come figlio di Dio. Come uomo sulla terra. Destinato al Cielo.

Per chi vuole credere e per chi sceglie di farlo, la forma di amore più completa, alla luce di cui ogni altra forma di amore prende corpo e acquista senso e significato, è il primo sguardo che abbiamo ricevuto. E che ancora illumina la nostra vita: lo sguardo di Dio.




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