Sono passati ventisei anni dal 5 settembre del 1997, quando Madre Teresa, la suora degli ultimi, dei più poveri tra i poveri, partita dall’Albania per dedicare tutta la sua vita ai bisognosi dell’India, moriva nella sua Calcutta, circondata dall’affetto delle suore e del mondo intero. Il 4 settembre 2016, la piccola ‘matita di Dio’, veniva canonizzata da Papa Francesco durante il Giubileo della Misericordia. Una vita straordinaria, una vocazione speciale quella di questa piccola donna con il sari bianco e blu. Un’esperienza che sarebbe impensabile racchiudere in poche parole.
C’è un aspetto che mi ha sempre particolarmente affascinato della santità di questa consacrata. Con la sua vita, le sue opere, madre Teresa ha testimoniato al mondo il valore e il senso salvifico della sofferenza. Non solo. Ella annunciava al mondo che il dolore avvicina l’uomo a Gesù ed è un’opportunità di conversione. Una vera e propria rivoluzione davanti al modo di pensare e di vivere oggi. Credo però che la più grande testimonianza sul senso del dolore, Madre Teresa l’abbia data vivendo la sua notte oscura della fede. Un tempo lungo e difficile, un tratto che ritroviamo in altri santi come san Giovanni della Croce, santa Teresa di Lisieux, santa Giovanna Francesca Frémiot de Chantal, santa Teresa d’Avila solo per citarne alcuni. Ciò che colpisce è il modo in cui vive questo tempo, senza mai allontanarsi dalla sua missione e dal suo ministero.
Scriveva alle sue suore: «Mie care figlie, senza sofferenza il nostro lavoro sarebbe solo lavoro sociale, molto buono ed utile, ma non sarebbe l’opera di Gesù Cristo, non parteciperebbe alla redenzione. Gesù desiderava aiutarci condividendo la nostra vita, la nostra solitudine, la nostra agonia e morte. Tutto questo Egli lo prese su Se Stesso, e lo portò nella notte più scura. Solo essendo uno di noi ci poteva redimere. A noi è permesso fare lo stesso: tutta la desolazione dei poveri, non solo la loro povertà materiale ma anche la loro profonda miseria spirituale devono essere redente e dobbiamo condividerle. Quando vi risulti difficile, pregate così: “Voglio vivere in questo mondo che è lontano da Dio, che si è allontanato tanto dalla luce di Gesù, per aiutarLo, per caricare su di me una parte della Sua sofferenza”».
Come è lontano il suo parlare dal nostro modo di vivere! Pensiamo che, quando il dolore bussa alla porta del nostro cuore, abbiamo il diritto di prenderci le pause da tutto e specialmente dalle cose di Dio per ritrovare la pace e la serenità. Madre Teresa invece ci insegna a stare nel dolore, a viverlo come una chiamata. «Se questo Vi porta gloria, se le anime sono portate a Voi – scrive la piccola santa – con gioia accetto tutto fino alla fine della mia vita. Io sono disposta a soffrire per tutta l’eternità, se questo è necessario». E ancora: «Se vorrò che Dio mi santifichi, voglio essere santa dell’oscurità e chiederà al cielo di essere la luce per coloro che vivono nelle tenebre sulla terra» (citata in B. Kolodiejchuk, Sii la mia luce, Bur 2009).
Significativo il commento di Marina Ricci, vaticanista del Tg5 che si è recata più volte a Calcutta per raccontare il lavoro di Madre Teresa: «Lei che aveva obbedito alla voce di Gesù che le chiedeva di essere povera tra i poveri, di abbracciare la miseria materiale, il disprezzo, l’abbandono e l’angoscia di chi non ha nulla, aveva stretto tra le braccia troppo forte quella Croce. E i segni di quell’abbraccio avevano passato il corpo fino ad arrivare all’anima, trasformandola in un orto del Getsemani e costringendola a urlare: “Dio, Padre, dove sei?”. Ebbene sì, madre Teresa aveva dubitato. E così facendo aveva ridato carne alla santità, ci ha testimoniato che il buio si può attraversare restando abbracciati alla croce». È questa la via della salvezza.
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