Mi arrivano da tanti amici condivisioni su anniversari di matrimonio o di ordinazione presbiterale. Questo tempo è ricco di date sacramentali, date in cui facciamo memoria per molti del momento più importante della propria vita: il sì definitivo, la scelta vocazionale, il sì per sempre.
Quei giorni sono avvolti da una luce e da una grazia particolare. Nella memoria si conserva tutta la dolcezza e la commozione, la gratitudine e la felicità. Ripensarci fa bene, rivedere le foto, ricordare la preparazione, i giorni immediatamente precedenti e quelli successivi ci aiutano a ritrovare la gioia di una chiamata, ci ricorda che siamo stati pro-vocati da quel Dio infinitamente più grande e più buono di ogni nostra buona intenzione. Ma poi? Come si è dispiegata quella vocazione? Quei desideri grandi, i progetti, quello slancio di quel giorno sono presenti ancora? Come vivo la fedeltà alla mia vocazione?
Porsi queste domande è molto importante. Ricevendo una vocazione significa che il Signore ci ha amati e ci ha voluti proprio lì. La nostra vocazione è il senso della nostra vita. Non viviamo veramente la nostra vita se non siamo fedeli alla nostra vocazione. Dunque la fedeltà alla nostra vocazione è la fedeltà al senso della nostra vita. Sono due giorni che cerco di riflettere su questo dopo che ho saputo che un amico ha lasciato la sua vocazione al sacerdozio. Prego molto per lui e non sono io certo adatta a poter dire qualcosa sulla sua scelta. Solo che questo evento mi ha molto invitata a riflettere. Non su di lui ma sulla fedeltà appunto alla vocazione ricevuta. Cosa significa concretamente fedeltà?
Significa che io appartengo a Dio. Che grande consolazione pensare che noi apparteniamo a Lui. E questo è il segno più bello della vocazione, qualsiasi vocazione. Noi siamo di Cristo. Guardiamo alla testimonianza degli apostoli. “Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti e li riconoscevano come quelli che erano stati con Gesù” (At, 4,13). Li riconoscevano perché erano di Gesù, erano stati con Lui. Erano suoi. La fedeltà alla vocazione rispecchia questa appartenenza? Gli altri quando ci guardano, quando ci sentono parlare, quando ci vedono operare si accorgono di questa appartenenza? Nel matrimonio ancora di più gli sposi si appartengono l’un l’altro e insieme a Dio, nella vita consacrata o presbiterale c’è l’esclusività assoluta a Dio.
“Erano stati con Gesù” significa anche che la fedeltà è relazione, non dipende solo dalle nostre forze, non dipende solo da noi, da quanto sapremo essere forti. Noi non dobbiamo essere fedeli a noi stessi, alle promesse che abbiamo fatto ma essere fedeli a Qualcuno.
Molti che abbandonano la vocazione al matrimonio o alla vita consacrata dicono di farlo per essere fedeli a se stessi, per essere coerenti. Ma cosa significa fedeltà a se stessi? Si è fedeli solo in una relazione, in un’appartenenza ad un altro. Quando si è infedeli, significa che si pensa di essere autosufficienti, che quella relazione, quell’appartenenza non mi definisce come persona e rincorro il mio sogno non quello di Dio. È Lui il Fedele, “se noi siamo infedeli, lui rimane fedele”, scrive san Paolo a Timoteo (2Tm 2,13). È bello pensare a questo, è bello pensare che la sua fedeltà si manifesta nella comunione e nella relazione fraterna.
Gli infedeli, fateci caso, non amano la relazione fraterna, parlano solo di se stessi, amano solo se stessi, a loro non interessa il male che infliggono agli altri, alla famiglia, alla comunità cui appartengono. E anche il mondo pensa: “l’importante che faccia come desidera il suo cuore”. No, è esattamente il contrario. E anche come cristiani non dobbiamo abituarci a questo modo di pensare. Perché così al centro c’è sempre il proprio tornaconto. Invece è bello pensare che in ogni vocazione siamo chiamati a farci un po’ più piccoli, meno al centro, più umili, perché risplenda solo la fedeltà di Dio e la sua grandezza. Ed è Lui che rende possibile il nostro sì per sempre.
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