“Il matrimonio è la tomba dell’amore”, “Se ti sposi sei destinato alla prigionia”, “Hai tirato i remi in barca! (cioè ti sei accasato)”. Questi e altri luoghi comuni accompagnano la notizia di un matrimonio imminente. Si tende scherzosamente – ma non troppo – a mettere in guardia il malcapitato o la malcapitata dalla “tragedia” del matrimonio. Le frasi nascondono un frammento di verità si intende: l’amore è un’avventura faticosa, non sempre in discesa e la relazione è messa a dura prova dalla quotidianità, dai figli, dalle illusioni che ci portiamo dentro, dalla solitudine…Ma le parole sono anche fondamentali e hanno la capacità di togliere o di dare senso alle cose come alle scelte. Se parlare male del matrimonio diventa un costume, nel pensiero comune diventa cultura. Tanto che oggi si ha quasi paura di dire che si è sposati d 30, 40, 50 anni sempre con la stessa persona.
Fabrizio Benedetti, neuroscienziato noto a livello mondiale per gli studi sull’effetto placebo (cioè sui farmaci inerti che ottengono effetti curativi) in un libro “La speranza è un farmaco” scrive: «Il malato spera più di ogni altro. La speranza può essere indotta dalle persone vicine così come da chi cura. Sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole di conforto, fiducia, motivazione. Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli in armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. Recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina, ma visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole e poi i farmaci, è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole.
Ma le parole possono fare anche male. Possono essere tossiche e produrre danni, così come i farmaci. Possono indurre ansia, depressione, sconforto, quindi il loro uso deve essere ponderato, per evitare che una malattia già di per sé invalidante venga aggravata da parole avventate e spropositate. Le parole possono guarire. Ma le parole possono anche uccidere. E tutto ciò avviene con effetti, meccanismi e azioni simili ai farmaci. La scienza oggi descrive così la speranza, cioè come un’entità concreta che ha il potere e la forza di modificare il cervello e l’intero organismo. Parole, speranza e farmaci inducono effetti simili con meccanismi simili».
Ripensavo a queste parole lette mentre ieri sera parlavo ai fidanzati di un percorso di preparazione al matrimonio di Montecorvino, un piccolo paesino del salernitano. Abbiamo bisogno di chi parla bene del matrimonio, ne annuncia la bellezza, la possibilità di curare le ferite, di sanare le distanze. Dicevo loro della fatica sì, ma una fatica trasfigurata, accolta, amata. Abbiamo bisogno non di strategie studiate a tavolino per capire come rianimare il malato grave (il matrimonio), come spesso avviene nei grandi consessi pastorali o sociali, ma di persone che ne parlino con gioia, coraggio, in prima persona. Riempiamo questa povertà verbale con parole di speranza.
Il tempo pasquale è inebriato da queste parole di vita. Il Risorto cammina tra noi ridestandoci dal torpore, illuminando gli angoli oscuri, rendendoci capaci di parlare la lingua dell’amore. Quando le parole impegnano tutto l’essere, fanno accadere ciò che dicono. Il cambiamento deve cominciare da qui.
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