VITE DEI SANTI

San Giuseppe Moscati e la vocazione di medico nata in famiglia

di Chiara Chiessi

La notizia della sua morte si diffuse rapidamente: era morto il medico santo, amato in tutta Napoli. Questa è la straordinaria storia di un santo, San Giuseppe Moscati, che capì per la prima volta di essere chiamato alla vocazione di medico come laico consacrato assistendo il fratello epilettico.

“Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene”. (San Giuseppe Moscati) 

San Giuseppe Moscati fu un laico consacrato che unì ad una profonda conoscenza della scienza medica un’intensa spiritualità.

Per lui i poveri erano quelle figure che più assomigliavano a Cristo sofferente, ed il medico dunque aveva il compito di accorrere al grido dell’anima che soffre con l’ardore della sua carità. 

“Il mio posto è accanto all’ammalato!”: questa fu la frase di risposta del santo quando gli proposero di diventare ordinario.

Non era di certo il prestigio o il denaro a guidare il lavoro di Moscati, ma la carità verso l’ammalato, l’ultimo degli ultimi.

Come maturò in questo santo la chiamata alla consacrazione laica ed alla scienza medica?

Figlio di un magistrato e di una donna cattolica molto pia, era il settimo di nove figli.

Ricevette un’educazione cristiana ed umana molto forte: dopo il diploma al liceo classico iniziò gli studi presso la facoltà di medicina di Napoli, con grande disappunto del padre che lo voleva a tutti i costi avvocato.

Il motivo di tale scelta di rottura rispetto alla tradizione familiare – tutti avevano studiato giurisprudenza – è legato a due fattori, dominati in entrambi casi dall’influenza paterna.

Dalla finestra dell’abitazione del santo, egli poteva osservare l’ospedale degli incurabili di Napoli, dove erano ricoverati i malati considerati senza speranza, di cui suo padre spesso gli parlava, suggerendogli sentimenti di pietà per i pazienti ricoverati.

Lo scriverà più tardi al Presidente degli Ospedali Riuniti di Napoli:

“Da ragazzo guardavo con interesse all’Ospedale degli Incurabili, che mio padre mi additava lontano dalla terrazza di casa, ispirandomi sentimenti di pietà per il dolore senza nome, lenito in quelle mura. Un salutare smarrimento mi prendeva e cominciavo a pensare alla caducità di tutte le cose e le illusioni passavano come cadevano i fiori degli aranceti, che mi circondavano”.

Il secondo motivo per cui scelse di studiare medicina fu perché dall’età di sedici anni iniziò ad assistere il fratello più grande Alberto, infortunatosi dopo una caduta da cavallo e diventato epilettico.

Il giovane santo trascorreva giornate intere con il fratello malato e questa tragica esperienza gli fece toccare con mano quanto il ruolo del medico sia da intendere nell’ottica di una vera e propria vocazione, e che il malato vada assistito non solo con cura e competenza umana, ma soprattutto in modo soprannaturale.

Da allora il suo motto sarà:

“Sarò la tua morte, o morte!”

Leggi anche: Genitori santi, figli santi? La storia di santa Caterina di Svezia e della mamma, santa Brigida (puntofamiglia.net)

Possiamo dunque a ben ragione dire che l’influenza familiare fu determinante nella scelta della vocazione di Moscati ed è stata di certo uno strumento della Provvidenza per orientare il cuore del giovane lì dove Dio lo voleva.

Dopo essersi laureato a pieni voti, si presentò ai concorsi per entrare come medico proprio all’ospedale degli incurabili.

Neanche tre anni dopo, emerse la sua capacità di agire tempestivamente: dopo aver assistito alle prime fasi dell’eruzione del Vesuvio dell’8 aprile 1906, si precipitò a Torre del Greco, dove gli Ospedali Riuniti di Napoli avevano una sede distaccata, e trasmise l’ordine di sgombero, caricando personalmente i pazienti, molti dei quali paralitici, sugli automezzi che li avrebbero condotti in salvo. 

Appena l’ultimo paziente fu sistemato, il tetto dell’ospedale crollò. 

Nell’epidemia di colera del 1911 fu invece incaricato di effettuare ricerche sull’origine di essa: i suoi consigli su come contenerla contribuirono a limitarne fortemente i danni.

Intanto, qualche anno prima, era morto l’amato fratello Alberto a causa di complicazioni dovute all’epilessia ed anche il padre per un’emorragia cerebrale.

Qualche anno dopo morì la madre a causa del diabete.

Il santo andò a vivere con la sorella Nina, complice con il fratello nel fare il bene al prossimo, in via Cisterna dell’Olio, a pochi passi dalla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli, dove riceveva quotidianamente l’Eucaristia e recitava il Rosario con la sorella.

Grande infatti era la sua devozione per la Vergine Maria: sul suo esempio decise di rimanere celibe, ma senza farsi sacerdote; vedeva infatti la sua missione da medico alla stregua del sacerdozio, in cui “il dolore va trattato non come una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità, occupandosi del corpo e dello spirito”.

In un’epoca in cui le vocazioni si dividevano in maniera netta (o il matrimonio, o la vita religiosa), Moscati scelse una via del tutto originale e nuova: quella cioè di restare laico nel proprio mondo senza appartenere ad istituti religiosi, nemmeno ad ordini minori, pur scegliendo volontariamente e coscienziosamente la condizione verginale.

“Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore” questa era la massima che allo stesso tempo identificava sia la sua missione di medico cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati.

Esemplare era inoltre la sua sobrietà e povertà.

Numerosi sono i racconti dei pazienti che si videro recapitare indietro la somma con cui l’avevano pagato, anche se ne aveva diritto essendo venuto da lontano.

Un medico cattolico, un santo sui generis, potremmo dire.

Una volta, un suo collega dirà:

“Solendo vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva in maniera visibile. Se visitava dei ricchi o dei benestanti accettava il denaro, ma davanti a sé ed a Dio la sua preoccupazione restava sempre quella di non essere un approfittatore.”

Alla moglie di un paziente così scriveva:

“Signora vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero dei pescecani, pretenderei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi dia la gioia della guarigione di vostro marito. Fate che non si allontani da Dio e frequenti sempre l’Eucarestia fonte della salute.”

San Giuseppe Moscati ha visto la nascita della sua vocazione dalla positiva influenza familiare, da un ambiente cristiano che gli ha sempre insegnato a mettere prima della salute del corpo quella dell’anima, ambiente in cui ha imparato in prima persona ad assistere i malati, come il fratello Alberto, e la sofferenza interiore che genera vedere un proprio caro che sta male.

La famiglia è stata la sua prima “scuola”, sia spirituale che medica, il primo seme gettato che ha fatto crescere una pianta immensa.

Oggi San Giuseppe Moscati è uno dei santi più amati, invocato quotidianamente da tutti i malati, considerato santo già in vita.

Ma forse non tutti sanno che Moscati, oltre ad essere celebre per dottrina e scienza medica, fu sin da giovane toccato dalla sofferenza e quindi ha potuto capire benissimo lo strazio e la paura di perdere un fratello o un figlio o un genitore.

Questa fu la lettera che scrisse ad un collega che aveva da poco perso il padre:

“Ho con vivissimo cordoglio appreso la scomparsa del Vostro amatissimo padre! Comprendo lo strazio di famiglia! Anche io l’ho provato e ragazzo: e mio padre era integro magistrato come il caro vostro scomparso; e sembrava che avesse lasciata derelitta la sua famiglia! Ma Iddio si sostituisce a colui che vuole con sé! E voi ed i Vostri sentirete l’arcana protezione, che vi prodigherà, sempre presso di Voi, ma invisibile, l’anima del genitore”!




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