La testimonianza di Oxana

E restarono immobili ad aspettare la morte o i russi, tanto è lo stesso

La storia di Oxana scritta da Ida Giangrande

Se ringrazio Dio di essere al sicuro in Italia? No, per due motivi, il primo perché vorrei essere lì a morire con la mia gente. Il secondo perché nessuno è al sicuro se uno come Putin una mattina decide di rovesciare la storia.

Sono in Itala da tanto tempo. Qui mi sono sposata. Qui ho partorito la mia bambina. Ma in Ucraina ci sono tutti, mio fratello, mia madre, i miei zii. Mi dicono che mamma è al sicuro, ma come può essere al sicuro una persona che vive in una terra invasa, in cui l’esercito nemico avanza inarrestabilmente? Proprio ieri ho saputo che mio zio è stato arruolato. Lo hanno convocato e lui non ha potuto sottrarsi. Unica consolazione è sapere che non è esposto in prima linea, ma è una consolazione lieve, perché altri stanno combattendo anche uomini che non hanno mai imbracciato un fucile e non hanno mai sparato un colpo in vita loro. 

Gli Ucraini sono un popolo di lavoratori. Abbiamo faticato e lottato per costruirci piccole case modeste in cui poter vivere con dignità e ora questa dignità ci viene sottratta e nella maniera più brutale possibile. Siamo costretti a guardare mentre le bombe e l’artiglieria pesante distruggono tutto quello che abbiamo costruito in anni di lontananza da casa e di duro lavoro.

In questi giorni ho sentito una mia amica. Si chiama Elena. Vive a Kherson, o in quello che ne rimane? La linea era disturbata perché mi chiamava dallo scantinato dove lei e la sua famiglia vivono rinchiusi da circa una settimana. Acqua e viveri scarseggiano, il riscaldamento manco a parlarne ed è diventato difficile anche ricaricare il telefono dal quale possono fare telefonate velocissime. Mi ha raccontato che guardano il mondo da una finestrella coperta da una sottile ragnatela di ferro, di quelle fatte per favorire il passaggio dell’aria nel sottoscala. Hanno capito che i russi era arrivati dai fischi delle bombe e il terribile frastuono dei crolli successivi. Poi i movimenti concitati, il boato dei colpi di fucili e dei missili. Quando tutto questo è finito, hanno pensato: “Ci hanno presi ormai”. E sono rimasti immobili ad aspettare la morte o i russi. Era lo stesso. 

Poi hanno trovato il coraggio di guardare attraverso la finestrella. Sul marciapiede opposto, un carrarmato aveva appena sfondato le vetrine di un negozio di divani e i soldati facevano festa saccheggiando tutto e ubriacandosi. Non l’ho più sentita da quella nostra telefonata e non so se è ancora viva. Il mio cuore prega e piange perché mai nella vita avrei pensato di trovarmi a pregare per la vita di un mio caro. 

Nelle città distrutte chi vi è rimasto imprigionato vive con la paura dei crolli improvvisi, gomito a gomito con gli sciacalli e contro un nemico altrettanto devastante: il freddo. E io qui? No, non mi sento al sicuro. Sono interiormente dilaniata, come se una bomba mi avesse mandato in frantumi il cuore. Mio fratello lavora qui, ma sua moglie e sua figlia sono lì ed io non faccio che pensare alla mia nipotina. A quanto vorrei stringerla, abbracciarla, farla sentire al sicuro, cancellare dalla sua mente le immagini orribili che ha visto. Ha nove anni, è solo una bambina a quest’età dovrebbero pensare all’estate che si avvicina, ai giochi, alle passeggiate al parco e invece si ritrovano in fuga su strade ghiacciate e con un’infanzia in valigia. Questa storia mi ha cambiata. Vorrei essere la persona di prima, ma non ci riesco.




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