Usare lo “schwa”? Ma anche no! Vi spiego perché…

Uno dei temi maggiormente dibattuti negli ultimi tempi è l’uso dello schwa nella comunicazione. Cos’è? Una piccola “e” capovolta che praticamente non esiste nel nostro sistema linguistico e che non ha alcun significato. Perché includerla? Per togliere un’identità di genere anche alle parole. Ma questo è davvero inclusivo? E, soprattutto, quali sarebbero gli effetti sulla comunicazione? 

In un sondaggio di Tecnica della Scuola la stragrande maggioranza dei 3.233 rispondenti ha detto no all’uso dello schwa nelle comunicazioni scritte, in controtendenza, ad esempio, con gli alunni del liceo Cavour di Torino che hanno chiesto e ottenuto che nel proprio istituto si usi l’asterisco al posto delle desinenze maschili e femminili. In altre parole, non più “studente”, ma “student*”, non “iscritti”, ma “iscritt*”, non “ragazzi” ma “ragazz*”.

Gli insegnanti a dire no sono l’87,2%, 8 su 10 sono gli studenti e lo stesso risultato lo ritroviamo anche nella categoria altro, che comprende i genitori, il personale Ata e non solo. Insomma, anche alla stessa generazione zeta (i nati tra la fine degli anni Novanta e la fine degli anni Duemila) il simbolo dello schwa sembra non convincere, segno che la lingua, per i ragazzi, debba sì essere inclusiva, ma anche assolvere al compito di consentire una comunicazione efficace. E qui la domanda sorge spontanea: lo schwa rende efficace la comunicazione?

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Facciamo un passo indietro: quando parliamo di schwa ci riferiamo ad un suono indistinto che nel trapezio vocalico si posiziona nella parte centrale e viene descritto come centrale medio. Il simbolo di riferimento è “ə”, una piccola “e” capovolta che non appartiene a nessuna delle vocali del nostro sistema. Inutile dire, infatti, che non si tratta di un suono nostrano. Il termine scevà è un adattamento del tedesco Schwa ([ʃva]), il quale a sua volta deriva dalla parola ebraica שווא (šěwā’, /ʃəˈwaːʔ/) che può essere tradotta come “insignificante”. Ha una certa rilevanza in inglese ma in italiano non esiste. Per comprendere bene di quale suono stiamo parlando dobbiamo rispolverare il caleidoscopio di dialetti presenti sul nostro territorio. Lo schwa è presente, infatti, nel napoletano e nel piemontese. Secondo alcuni, introdotto nel nostro sistema, questo simbolo renderebbe la nostra lingua più inclusiva e permetterebbe alle persone con disforia di genere di sentirsi rappresentate, ma questo ovviamente a prezzo di scardinare tutto il sistema nella sua complessità ed efficacia. 

Premetto che non sono una linguista, ma un’appassionata della materia, questo sì. La questione mi costringe infatti a rispolverare i miei vecchi manuali di linguistica generale, sociolinguistica e glottologia. La nostra bella lingua, così preziosa ha una storia lunga e ardimentosa alle spalle. È stata partorita dai circoli letterari non dal volgo, sebbene il dialetto fiorentino fosse anticamente candidato a diventare la lingua ufficiale di una nazione allora inesistente. Proprio perché nato da letterari e artisti, l’italiano (quello standard) è una lingua raffinata e colta, in grado di dire qualunque cosa. A differenze di altre lingue, ha un sistema morfologico molto preciso. Ogni parola si conclude con una vocale, tranne le dovute eccezioni, che si chiamano così proprio perché sono casi eccezionali, non la regola. Le ragioni sono due, innanzitutto perché la fine di ogni parola rappresenta una potenziale pausa nel discorso e in secondo luogo perché la desinenza in italiano ci serve per ascrivere la parola alla categoria grammatica di riferimento. Singolare, plurale, maschile, femminile non sono differenziazioni tra gli uomini, ma strutture interne al codice che favoriscono una comunicazione ordinata e chirurgicamente precisa. Questo è uno dei punti di forza della nostra lingua, la precisione, non a caso l’italiano è una delle lingue più difficili da studiare all’estero proprio per la grande settorializzazione grammaticale da cui è composta. Una differenziazione che molto spesso si può riconoscere unicamente dalla vocale che chiude la parola.

La funzione grammaticale in un testo poi ci permettere di riconoscere la funzione che ogni parola svolge nella struttura sintattica e quindi semantica. Possiamo dunque riconoscere di cosa parliamo, a cosa ci riferiamo ecc… Se si eliminano le desinenze scompare la morfologia e il testo diventa una somma indistinta di parole non compiute e non in relazione tra loro. 

Al netto di quanto dicono i luminari della materia, (è chiara la posizione dell’Accademia della crusca sull’argomento) avendo io una speciale sensibilità per quanto riguarda l’identità femminile e tutto il complesso di evoluzioni che le girano intorno, non posso non notare che l’inserimento dello schwa se da un lato consentirebbe alle persone che non si riconoscono nel maschile e nel femminile, di sentirsi rappresentate anche linguisticamente, dall’altro avrebbe come conseguenza l’impedimento del riconoscimento delle altre identità quella maschile e dunque anche quella femminile appunto (scusate la ripetizione). In una parola come sindac* o presid* non mi sembra siano inclusi nuovi generi, semplicemente mi pare sia escluso qualsiasi genere, neutralizzando ogni differenza sostanziale che richiami un’identità precisa. In altri termini accettando tale escamotage proporremmo una serie di parole indistinte, non classificabili, non riconoscibili, grammaticalmente neutre che snaturerebbe la nostra lingua e che, sul piano esclusivamente etico e/o sociale, non risolverebbe il problema, ma anzi lo peggiorerebbe perché dalla comunicazione sarebbe esclusi ad esempio gli uomini e quindi anche le donne.




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Ida Giangrande

Ida Giangrande, 1979, è nata a Palestrina (RM) e attualmente vive a Napoli. Sposata e madre di due figlie, è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II. Ha iniziato a scrivere per il giornale locale del paese in cui vive e attualmente collabora con la rivista Punto Famiglia. Appassionata di storia, letteratura e teatro, è specializzata in Studi Italianistici e Glottodidattici. Ha pubblicato il romanzo Sangue indiano (Edizioni Il Filo, 2010) e Ti ho visto nel buio (Editrice Punto famiglia, 2014).

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