La Corte Suprema: il crocifisso in aula non discrimina nessuno…

Crocifisso

Il crocifisso non è un atto discriminatorio quindi può restare in aula a patto che la scuola non decida diversamente. Via libera dalla Corte Suprema. La Cei: “Quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo”.

Il crocifisso nelle scuole non è discriminatorio nei confronti di nessuno. A stabilirlo la Suprema Corte con la sentenza 24414/2021 pubblicata nella mattina dell’8 settembre. Una certa libertà di scelta viene lasciata alla «comunità scolastica», che può anche decidere di accompagnarlo «con i simboli di altre confessioni presenti in classe – così si esprime il comunicato stampa diffuso dalla Cassazione – e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi».

Per la Corte al crocifisso «si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo». Per questo, a maggior ragione, la sua affissione «non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione». Sotto il profilo prettamente giuridico, i giudici ricordano come un regolamento degli anni Venti, mai abrogato, avesse imposto la presenza del crocifisso nelle aule. 

«Ogni istituto – si legge in quel testo – ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re». È vero, allora il cattolicesimo era “religione di Stato”. Ma la Suprema Corte nella sentenza di ieri ha chiarito che la norma di un secolo fa è suscettibile di essere interpretata oggi in senso conforme alla Costituzione. Dunque se la Scuola nelle sue varie componenti lo vuole, il crocifisso può e deve restare, perché «il venir meno dell’obbligo di esposizione – si legge in sentenza – non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche». Attenzione: se l’istituto, studenti compresi, decide di tenerlo, nessuno può toglierlo a piacere, come invece aveva fatto il docente da cui era scaturito il caso giudiziario.

Con la pronuncia di ieri, sotto il profilo tecnico-giuridico si chiarisce una questione dibattuta da molto tempo ormai e che aveva diviso l’opinione pubblica in due metà. Almeno per il momento possiamo tirare un sospiro di sollievo. Negli ultimi mesi mi è capitato spesso di girovagare per le svariate aule di un istituto. Devo ammettere che tra il caos generale, le campanelle e le regole anti-Covid, quello che feriva il cuore era quella parete spoglia dietro la cattedra. Alcune pareti, evidentemente deteriorate, avevano conservato l’alone di un simbolo che ricorda al mondo fino a che punto può arrivare la donazione di sé per amore dell’altro. Un insegnamento di vita che riveste di carne la solidarietà, le dona concretezza. Almeno da questo punto di vista dunque mi sembra un buon modo per inaugurare il nuovo anno scolastico.

La Conferenza episcopale cattolica ha commentato la sentenza con una Nota diffusa dall’Ufficio Comunicazioni sociali in cui leggiamo: «La sentenza con cui la Corte di Cassazione è intervenuta sulla vicenda sollevata in una scuola di Terni ribadisce che “l’affissione del crocifisso – al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo – non costituisce un atto di discriminazione”». 

Per Mons. Stefano Russo, segretario generale della Cei, la decisione interpreta il principio stesso di libertà religiosa: «I giudici della Suprema Corte confermano che il crocifisso nelle aule scolastiche non crea divisioni o contrapposizioni, ma è espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria. La decisione della Suprema Corte – aggiunge Russo – applica pienamente il principio di libertà religiosa sancito dalla Costituzione, rigettando una visione laicista della società che vuole sterilizzare lo spazio pubblico da ogni riferimento religioso. In questa sentenza la Corte riconosce la rilevanza della libertà religiosa, il valore dell’appartenenza, l’importanza del rispetto reciproco». Riservandosi un giudizio più approfondito dopo la lettura integrale della lunga e complessa sentenza, Russo osserva come sia «innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo, perché nessuna esperienza è più universale della compassione verso il prossimo e della speranza di salvezza. Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità».




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Ida Giangrande

Ida Giangrande, 1979, è nata a Palestrina (RM) e attualmente vive a Napoli. Sposata e madre di due figlie, è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli, Federico II. Ha iniziato a scrivere per il giornale locale del paese in cui vive e attualmente collabora con la rivista Punto Famiglia. Appassionata di storia, letteratura e teatro, è specializzata in Studi Italianistici e Glottodidattici. Ha pubblicato il romanzo Sangue indiano (Edizioni Il Filo, 2010) e Ti ho visto nel buio (Editrice Punto famiglia, 2014).

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