Scuola

Il problema non è il cellulare

15 Luglio 2021

In classe si può usare il telefono, sì o no? Quando si parla di era digitale viviamo nel mondo di mezzo del già ma non ancora. Come ci muoviamo, allora, visto che il principale device è proprio il cellulare?

Ci ho concordato la data di questo articolo. Lo uso per controllare la qualità della rete scolastica. Ci scrivo e pubblico circolari. Ci compilo il Registro elettronico e lo uso per consultare libri e siti per le lezioni. In questi giorni lo stiamo utilizzando a casa per pianificare le uscite in vacanza. Ci facciamo importanti eventi in diretta anche per seri convegni. Viene utilizzato per realizzare documentari video e digitali di azioni importanti. È ormai il principale canale di comunicazione della stragrande maggioranza delle persone al mondo. Ha persino surrogato l’aula nel periodo più buio della chiusura scolastica. Eppure è vietato a scuola! E non solo in Italia. Sta facendo discutere nel Regno Unito, infatti, la proposta del ministro dell’istruzione, Gavin Williamson, di imporre un divieto totale sull’uso dei telefonini da parte di bambini e ragazzi nelle scuole britanniche. Per ora è un’idea in discussione con presidi, insegnanti e sindacati. Siamo prossimi alla decisione definitiva, ma il ministro sembra intenzionato ad arrivare fino in fondo. In Gran Bretagna, la maggior parte degli istituti costringe già gli alunni a lasciare il telefonino nella borsa. Possono toglierlo soltanto all’ora di pranzo o durante gli intervalli. In molte scuole non è consentita nemmeno la consultazione in questi tempi liberi. Il dibattito è molto aperto. Da una parte c’è chi dice che “Parlare di telefonini è una distrazione” bisognerebbe “concentrarsi sulla salute mentale e il benessere dei minori”. Dall’altra parte alcuni presidi ritengono che “proibire a tappeto i telefonini in tutte le scuole non funzionerebbe perché ogni istituto ha esigenze diverse”. S’invocano studi più o meno recenti e più o meno scientifici. Sempre in Gran Bretagna secondo uno studio della “London School of Economics” il rendimento scolastico degli alunni migliora quando l’uso dei telefonini durante l’orario scolastico viene proibito.

E in Italia? La situazione è un po’ schizofrenica. Vige ancora una Direttiva del 15/03/2007, firmata dall’allora ministro Giuseppe Fioroni che, di fatto, sancisce il dovere di non utilizzare il telefono cellulare, o altri dispositivi elettronici, durante lo svolgimento delle attività didattiche. La cosa vale anche per i docenti. E varrebbe anche durante le visite guidate che si configurano come “attività didattica”. Va considerata, infine, la questione della privacy. Eventuali fotografie o riprese fatte con i video-telefonini a compagni e al personale docente e non docente, senza il consenso scritto delle persone si configurano come violazione della privacy, perseguibile quindi per legge. La direttiva in questione prevede delle eccezioni descritte dai regolamenti di istituto che devono decidere come far attuare tale regolamento ed eventualmente le sanzioni da irrorare in caso di mancato rispetto. Leggendo meglio tale documento traspare però una visione ristretta dell’accezione della perifrasi “uso del cellulare a scuola” limitandosi a vederne solo la funzione comunicativa. Sono passati, infatti, 15 anni da tale direttiva e ne è passata di acqua sotto i ponti: la stragrande maggioranza delle App disponibili oggi per gli smartphone allora non esisteva. E non c’erano le esigenze che ci sono ora. Giusto per fare un esempio. In quegli anni, il registro era cartaceo. Oggi quasi tutti gli istituti dispongono di un registro digitale, ma non di un computer in ogni aula. Come si districa un docente che deve firmare ed annotare?

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Dall’altra parte, il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) invita la scuola ad aprirsi al BYOD, acronimo inglese che sta per Bring Your Own Device, porta il tuo dispositivo. Lo si fa “per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale” ma anche con l’obiettivo di “alleggerire” le classi da strumentazioni informatiche costose ed ingombranti e, infine, per promuovere una didattica digitale basata sull’integrazione dei dispositivi elettronici personali degli studenti e degli insegnanti (smartphone, tablet e PC portatili) con le dotazioni tecnologiche degli spazi scolastici. È vista come “un’irrinunciabile occasione che permetterà ai docenti di puntare al raggiungimento delle competenze attraverso la mediazione di linguaggi moderni e accattivanti, capaci di proporre i contenuti in chiave interattiva e multimediale, pronti a rispondere alle esigenze individuali degli alunni e in grado di incoraggiare modalità di apprendimento di tipo cooperativo”.

Il concorso per le materie STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), che si sta tenendo in questi giorni, prevede anche domande di informatica che “mirano all’accertamento delle competenze digitali inerenti l’uso didattico delle tecnologie e dei dispositivi elettronici multimediali più efficaci per potenziare la qualità dell’apprendimento”.

Come si capisce, viviamo nel mondo di mezzo del già ma non ancora dell’era digitale. Come ci muoviamo, allora, visto che il principale device è il cellulare? Come gestire la cosa? Fermo restando che la maggior parte degli educatori concorda sul fatto che la risposta non è vietare i dispositivi in classe perché il divieto della tecnologia è controproducente per il mondo in cui viviamo, ci si sta muovendo anche a livello parlamentare in direzione contraria. Un’iniziativa di legge, infatti, parte dalla considerazione che, come leggiamo nell’introduzione, “difficoltà di apprendimento, ritardi nello sviluppo del linguaggio, perdita della concentrazione, aggressività ingiustificata, alterazioni dell’umore, disturbi del sonno, dipendenza: sono solo alcuni degli effetti che eminenti studiosi hanno riscontrato dopo aver verificato le conseguenze che l’uso continuato di telefoni cellulari e di altri apparecchi radiomobili provocherebbe nei bambini e negli adolescenti”. “In particolare – insistono i deputati nella proposta di legge – assolutamente deleteria è la tendenza di molti genitori che permettono ai propri figli minorenni di portare con sé a letto smartphone, videogiochi e tablet perché convinti che possano «conciliare» il sonno. Secondo gli esperti, questo comportamento deve essere evitato ad ogni costo poiché potrebbe addirittura causare ai bambini paura del buio, insonnia e incubi notturni, ottenendo così un risultato diametralmente opposto a quello che si vuole raggiungere.”

Interessante leggere cosa prevede tale proposta di legge: divieto assoluto fino ai 3 anni; al massimo un’ora al giorno dai 4 ai 6 anni; massimo tre ore dai 6 agli 8 anni; massimo quattro ore dai 9 ai 12 anni; obbligatorio il controllo dei genitori durante l’uso del dispositivo elettronico, con rischio di multe dai 300 ai 1500 euro per quei genitori che dovessero violare la disposizione (sebbene non sia ancora chiaro chi dovrebbe monitorare e come il rispetto della normativa). Per quanto riguarda la scuola, prevede che sia vietato l’utilizzo di telefoni mobili e di altri dispositivi di comunicazione elettronica da parte degli alunni all’interno delle scuole primarie e delle scuole secondarie di primo grado e negli altri luoghi in cui si svolge l’attività didattica salvo che nelle situazioni per le quali i regolamenti delle istituzioni scolastiche stabiliscono i casi e i luoghi in cui l’utilizzo è consentito per finalità didattiche e pedagogiche o per esigenze indifferibili degli alunni. Quindi, ricapitolando, si va verso la conferma del divieto anche da noi, tuttavia gli insegnanti devono adattarsi alla realtà che gli smartphone e altri dispositivi esistono e fanno parte delle vite degli studenti. Dall’altra parte della cattedra, nel frattempo, gli studenti devono riconoscere che utilizzare il proprio smartphone in maniera impropria durante le lezioni avrà un impatto, generalmente negativo, sul loro apprendimento generale. Di conseguenza, ed è qui che volevamo arrivare, gli studenti devono imparare ad autoregolarsi quando si tratta di utilizzare la tecnologia in classe. Di fronte a quest’ultima affermazione si aprono praterie di considerazioni da fare, ovvie ma non scontate. Autoregolarsi è un verbo che oggi va di traverso quasi a tutti, ma resta il nocciolo della questione. Rimanda a pratiche dal sapore troppo medievale per i puristi del modernismo del ventunesimo secolo. Eppure è proprio su questo aspetto che famiglie, studenti e docenti, da una parte e dall’altra della cattedra, possono e debbono incontrarsi. Il cellulare, come qualsiasi altro device, è uno strumento, tra l’altro molto accattivante, il cui utilizzo è neutro nel senso che sta a chi lo usa il farlo in modo costruttivo o distruttivo. Per utilizzarlo al meglio, quindi, necessita di accompagnamento da parte di un adulto che sia possibilmente libero, cioè non schiavo, nell’uso dello stesso dispositivo. Quanti genitori e insegnanti, infatti, sono più drogati dei figli o degli alunni dall’uso dei cellulari? In questo senso, forse potrebbe essere addirittura meglio consentirne l’uso a scuola e vietarlo a casa, dove il ragazzo, nell’intimo della propria cameretta, non è controllato. Dove sono i nostri ragazzi, quando sono in camera loro? Sarebbe una domanda interessante da porsi. Da esperienza diretta, per esempio, so che quasi tutti i ragazzi di prima media hanno già visto filmati pornografici sul loro cellulare. A casa, ovviamente. La via da seguire, ora come nel passato, segue le rotte dell’integrazione dei propri desideri. È su questo versante che dovremmo molto lavorare, ma mi sembra che le proposte di legge in discussione non se ne curino. Il problema è vecchio quando l’uomo. I cellulari ne rappresentano solo una trasposizione 2.0, per dirla con una sigla comprensibile ai più. In poche parole, lo strumento è nuovo, ma il problema umano del suo utilizzo no. Nell’esecuzione delle proprie azioni l’uomo è chiamato ad integrare i suoi impulsi ed i suoi desideri e la differenza tra un bambino ed un adulto sta proprio nel differente modo di integrarli. Questa integrazione dipende dalla cultura, dall’educazione e dalle conseguenti scelte che opera. Già Aristotele nell’etica nicomachea aveva colto 4 diversi tipi d’integrazione dei propri desideri: il continente, il virtuoso, l’incontinente e l’intemperante. Il continente sa cosa sia giusto e lo fa non perché ne sia convinto ma perché si trattiene, non ricavandone felicità. Si astiene dall’azione sbagliata senza veramente amare quella giusta. L’incontinente sa che un’azione è sbagliata, ma, a causa della sua debolezza e fragilità, la compie lo stesso e non è felice. L’intemperante non conosce nemmeno quale sia l’azione giusta, agisce semplicemente e ripetutamente per impulso del piacere momentaneo, che però non dà la gioia. Il virtuoso, a differenza del continente, conosce l’azione giusta, ne coglie il senso profondo per il proprio bene, agisce con fermezza e gioisce di ciò che compie. La virtù non è innata. Si esercita. È un habitus dicevano gli antichi, cioè un continuo esercitarsi a ricercare il meglio. È proprio questo fatto che la rende così indigesta ai nostri contemporanei abituati al tutto e subito senza sforzo alcuno. I genitori e i docenti sanno che qualsiasi legge, da sola, potrà al massimo formare dei continenti, che però non saranno felici. La vera sfida che ci si pone davanti è lavorare per giovani virtuosi e ciò è vero in ogni ambito, dall’uso del cellulare all’esercizio della propria sessualità. L’uso del cellulare potrebbe diventare solo una palestra. Intorno alla cattedra, tuttavia, siamo tutti concordi sulla necessità di esercitare la virtù di ogni ragazzo? Siamo unanimi nel volere la sua libertà di scelta? Nel lavorare per la sua integrazione dei desideri al fine di plasmare una soggettività adulta? Stando alla mia personalissima esperienza, la risposta a queste domande è negativa. Esse allora diventino appello nel tempo lento dell’estate dove ci si potrebbe anche fermare a riformulare le basi della propria vita.




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