Mentre in Senato si discute sul DDL Zan, se modificare o meno un testo interamente ideologico e dunque insalvabile sotto ogni aspetto, una legge che vorrebbe introdurre nelle scuole una cultura dove figure come “papà e mamma” tendono a cambiare il loro profondo significato, lo sport ci regala pagine di mammitudine imperante. Domenica 11 luglio sugli spalti in attesa del torneo di Wimbledon, la mamma di Fabio Berrettini con una delicatezza incredibile “nutriva” l’altro figlio con i Fiori di Bach.
Qualche ora dopo anche gli Azzurri, dopo la vittoria di Euro 2020 contro gli inglesi, ci regalavano pagine di grande tenerezza. Il giovane Federico Chiesa, in preda alla felicità per la Coppa appena conquistata, cerca immediatamente di parlare con la sua mamma e lo vediamo inquadrato dalle telecamere mentre grida al suo smartphone: «Siri, chiama mamma!». E poi lo si vede esibire in quella che doveva essere una videochiamata la medaglia e gridare: «Ti amo mamma».
Partecipando ad un Convegno a Casoria qualche anno fa, ho fatto un esperimento un po’ bizzarro. Mi sono alzata e mi sono presentata a tutti in questo modo: “Sono Giovanna e sono un concetto antropologico!”. La gente in sala mi ha guardata stupita. Una delle rivoluzioni più grandi che la cultura gender sta cercando di introdurre è proprio un nuovo linguaggio, un nuovo modo di soppiantare parole come famiglia, papà, mamma. È quello che Pier Giorgio Liverani, noto giornalista e direttore del Sì alla Vita, ha cercato di documentare con stile giornalistico nel suo libro il Dizionario dell’antilingua, denunciando il caos verso cui sembra tendere la società postmoderna e il rischio della perdita di ogni orizzonte di fine. È per questo che alla realizzazione del progetto culturale cristianamente ispirato è preliminare e necessaria la conoscenza delle insidie della nuova antropologia in cui l’uomo si situa come creatore e signore di se stesso.
La cultura gender si intrufola e mette in discussione la natura sponsale dell’uomo verso il suo Creatore. Ciò che spesso viene espresso ed inteso con il termine “gender”, si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro la sua stessa natura che si realizza pienamente nel dono e nella complementarietà con l’Altro e con l’altro.
La cultura gender pretendendo di assegnare il sesso in base a una scelta personale, e non alla natura, introduce un conflitto nella persona umana, che in realtà non esiste, in quanto il maschile ha necessità del femminile per essere compreso e attuato, e viceversa per il femminile. Tutto questo certamente non è nato all’improvviso ci troviamo a raccogliere i frutti di un tentativo attuato già da molti anni che non tiene presente proprio la natura sponsale dell’uomo: la procreazione è stata dissociata dalla sessualità (contraccezione e aborto), la coniugalità è stata dissociata dal matrimonio (convivenza), la genitorialità è stata dissociata dalla coniugalità (divorzio), la fecondità è stata dissociata dall’atto sessuale (procreazione medicalmente assistita). Si tratta di situazioni tutte generate dall’individualismo, dal soggettivismo e dal relativismo etico attuali, che lasciano credere che tutto sia possibile.
“Siri, chiama mamma”. Ci siamo tuti commossi. È il linguaggio antico e sempre nuovo. Sono le parole tra le più dolci e vere che ci sia mai dato di poter pronunciare: “padre”, “madre”, “marito”, “moglie”, “famiglia” fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Bravi azzurri, figli amati e generati ogni giorno alla vita.
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