30 giugno 2021
30 Giugno 2021
Quel manutergio custodito dalla madre | 30 giugno 2021
“Le parole hanno un peso”, mi ha detto un amico in questi giorni. Ha ragione, ci sono dei momenti in cui imbarazzati ci fermiamo a misurarle con il contagocce per paura di ferire qualcuno. Poi ci sono i gesti, quelli che sono più eloquenti delle parole, quelli che ti restano dentro e, nel bene come nel male, si imprimono nella memoria. Penso all’eloquenza delle immagini nell’arte. Davanti ad un quadro di Caravaggio, per esempio, osservando la vitalità e l’espressività delle figure rappresentate, si può notare fino a che punto il linguaggio dei gesti abbia sopperito a quello delle parole e magistralmente espresso e comunicato i sentimenti, le passioni, i “moti” che agitano l’animo dei propri personaggi.
I gesti della liturgia hanno la stessa carica espressiva. Qualche mese fa ho assistito all’ordinazione sacerdotale di un caro amico. I segni e le parole si intrecciavano in un’armonia meravigliosa come un ricamo su un panno di candido lino. Ero incantata dalla sinfonia delle mani: mani giunte in preghiera, mani aperte ad accogliere, mani imposte sul capo del chiamato, mani che ungevano altre mani, mani strette in un manutergio, mani che affidavano il calice e la patena, mani alzate per benedire. Un linguaggio che non mi era estraneo. Gesti che mi riportavano con il cuore e la mente alla mia maternità. A quando mi fu affidato sul grembo per la prima volta mio figlio e spalancai le mani per accoglierlo e poi lo segnai come prima cosa sulla fronte per benedire Dio di questo grande dono. Nei giorni successivi ero tutta per lui. Una madre deve provvedere in ogni cosa per il proprio figlio: a nutrirlo, lavarlo, vestirlo…Il figlio non comprende ancora il linguaggio verbale ma cresce attraverso l’eloquenza dei gesti.
Le mani dunque sono essenziali nel linguaggio dell’amore. La mano dell’uomo è lo strumento del suo agire, è il simbolo della sua capacità di affrontare il mondo, appunto di “prenderlo in mano”. Nella liturgia per l’ordinazione vengono imposte le mani, dal vescovo e poi dagli altri presbiteri presenti e poi la Chiesa vuole le mani del futuro presbitero, per ungerle, per consacrarle a Dio per sempre. Dio desidera che le mani del sacerdote non siano più strumenti per prendere le cose, gli uomini, il mondo per loro, per ridurlo in loro possesso, ma che invece trasmettano il suo tocco divino, che siano strumenti del servire, della sua capacità di donare l’amore. Dopo l’unzione le mani del novello sacerdote vengono strette in un manutergio. È un piccolo asciugamano utilizzato ogni giorno nella liturgia eucaristica dal sacerdote prima della consacrazione. Ignoravo che dopo la prima Messa, viene donato alla mamma del sacerdote perché lo custodisca e lo porti con sé fino nella tomba come il segno della donazione di quel figlio al Signore.
È un gesto commovente, carico di umanità. Una madre che ha l’onore di avere un figlio sacerdote, quella stessa madre che da piccolo lo ha nutrito, lavato, pettinato, ora custodisce quell’asciugamano che fa del proprio figlio il servo di tutti. Il servo. Nel 1922 i figli Filippo e Cesare, dei beati coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, manifestarono l’intenzione di entrare in seminario, cosa che avverrà il 6 novembre 1924. Una di quelle mattine, a colazione, il papà disse ai ragazzi: “Sapete, ieri monsignor tal dei tali mi ha fatto sapere che avrebbe desiderio o possibilità di avviarvi verso la “carriera” ecclesiastica, predisponendo le cose per un’ammissione all’Accademia dei Nobili Ecclesiastici… lo ho ringraziato di cuore, ma ho risposto categoricamente di no. Intendiamoci bene, ragazzi: se per caso aveste aspirazioni di carriera, non avete che a dirlo, e siete ancora in tempo. Allora, niente seminario, restate nel mondo, fate la vostra brava università e, con l’aiuto di Dio, nei limiti dell’onesto, m’impegno io ad aiutarvi nella carriera che sceglierete. Ma se volete esser sacerdoti, sia ben chiaro: fate i preti, e basta! e di carriera non se ne parli, né ora ne mai”. (QB. Pag. 142). La mamma in una lettera a Filippo: “…. Tornando a casa, figlio mio, io mi sentivo fiera del mio duplice dono e, per la prima volta il mio cuore di madre poté dire al Signore: Ecco, ti ho dato un gran dono. Ma l’anima, di rimando, mi rimetteva al vero posto, e mi mostrava qual dono mi aveva fatto il Signore scegliendo le mie due creature per la massima dignità consentita ad un uomo”.
La salvezza passa attraverso la carne. Don Andrea Santoro, un sacerdote della Diocesi di Roma assassinato a Trebisonda in Turchia il 5 febbraio, diceva: “Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne… Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo come ha fatto Gesù”. Come ha fatto Gesù, il Maestro e il Servo.
Vai all'archivio di "Con gli occhi della fede"
Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia
Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
Lascia un commento