Maternità
Simona Riccardi: “Vi racconto il mio libro sulla maternità”
di Ida Giangrande
Si intitola “Agar e Sara – Madri nella fede” è un libro giovane, fresco che a partire da due figure bibliche straordinarie non teme di affrontare tematiche attuali e scottanti come la maternità surrogata.
Al giorno d’oggi parlare di maternità è una cosa sempre più complessa, talvolta ho la sensazione di trovarmi di fronte a un cristallo purissimo, da cui partono tanti riflessi di luce, alcuni limpidissimi, altri più scuri. È per questo che accolgo sempre con gioia libri come quello di Simona Riccardi “Agar e Sara – Madri nella fede” per Edizioni Paoline, perché hanno il coraggio di affrontare uno dei temi più belli della storia con il coraggio dell’amore e della fede.
Simona quello che abbiamo di fronte è un libro dedicato alla maternità e alla donna in relazione all’uomo e a Dio. Raccontiamo la genesi della pubblicazione?
Questo romanzo è nato da un sogno, inteso non tanto in senso figurato quanto piuttosto in senso proprio. Un sogno molto realistico che mi ha condotto direttamente al testo scritto da un teologo del Settecento. Nella pagina iniziale del libro in questione si parlava dell’apparizione del primo angelo della Bibbia ad una donna egiziana, Agar, la schiava di Sara e Abramo. A distanza di poco più di un anno, mossa da un’inspiegabile spinta interiore che andava di pari passo con un percorso di ricerca spirituale, ho deciso di dare voce prima ad Agar e poi a Sara, anche alla luce della mia esperienza di madre. Il sogno è così “maturato” nel mio primo romanzo grazie all’incontro con le Edizioni Paoline e si è fatto “segno”: il segno che una speranza, sostenuta dalla fiducia, può trasformarsi in realtà.
Agar la schiava di Sara; nel libro racconta il dolore di una donna che si sente usata per il frutto del suo grembo, racconta la solitudine, il deserto interiore. Incarna dunque la schiavitù della maternità surrogata raccontata come una conquista e invece il sopruso più grande per una donna?
Agar è una guerriera, si piega senza spezzarsi sotto il peso della fatica e dei maltrattamenti, fugge e combatte contro il deserto, ritorna dalla sua padrona dopo essere cambiata nel profondo grazie all’incontro con il Vivente che tutto conosce e tutto comprende. Inizialmente cede all’orgoglio quando si accorge di poter ribaltare a proprio vantaggio la situazione, assurgendo improvvisamente al rango di concubina, ma in cuor suo non accetta di poter essere una madre surrogata, un semplice contenitore, un grembo preso in prestito “secondo le stupide leggi umane” poiché nessuno, “al cospetto delle leggi di natura”, può “recidere quel legame viscerale che unisce una madre alla propria creatura”. Semplicemente non ci sta… non ha alcuna intenzione di consegnare quel frutto del suo grembo di schiava alla padrona perché c’è un limite oltre il quale evidentemente non è possibile andare. Ma Agar non si salva da sola né da sola può salvare suo figlio. Accoglie con riconoscenza la profezia di avvenire e di posterità che Dio rivolge a lei personalmente, la dimostrazione che Egli ha ascoltato la sua sofferenza e la sua afflizione. Serba nel cuore questa promessa e fa del tutto affinché possa realizzarsi lottando fino alla fine per proteggere Ismaele dalla morte che si fa sempre più vicina nel deserto. Gli occhi improvvisamente si aprono e una Voce le svela la Sorgente della Vita. Agar, al contempo madre e padre, accompagnerà suo figlio finché non sarà pronto, uomo e marito, a dare compimento al piano di Dio.
Parliamo invece di Sara, la moglie anziana, sterile eppure… madre. Quale tipo di maternità è rappresentata da Sara?
Sara rappresenta la maternità negata in un’epoca in cui una donna era considerata veramente tale solo in quanto capace di perpetuare la propria discendenza. Ella porta dentro di sé il peso di un vuoto enorme nel grembo e sulla sua pelle il marchio indelebile della sterilità, una ferita nascosta eppure tanto evidente da farle sentire la riprovazione sociale e divina bruciare con un’intensità di sentimenti che cresce insieme all’avanzare dell’età. Ogni giorno che passa sembra aggiungere altro dolore a questa insopportabile mancanza e amplifica il suo desiderio di maternità, vissuto attraverso una nebulosa di sentimenti che lottano per conquistare il sopravvento. Sara li sperimenta tutti, dalla vergogna al disincanto, dalla rabbia alla rassegnazione, ma la speranza di madre alla fine sopravvive oltre ogni lacerante delusione. Nonostante l’umana impazienza e la ricerca di una soluzione iniziale che fa affidamento sulle sue sole forze e che evidentemente non corrisponde al piano divino, questa donna, dopo tanto aver sofferto, troverà nella fede in Dio la sua ricompensa. Il sorriso, non quello incredulo e temporaneo ma quello fiducioso e duraturo di chi crede nella Promessa, si affaccerà sul suo volto nel momento in cui Dio le donerà il miracolo della nascita di Isacco vincendo la vecchiaia e la sterilità. Ecco che la maternità negata, prima solo sognata e immaginata, si fa maternità piena e vera in un tempo stabilito da Dio, proprio quando Sara consegna al Cielo il suo desiderio più grande liberandosi del peso di volerlo vedere realizzato a tutti i costi.
La prospettiva di Abramo… una voce maschile che sembra essere sempre più sfumata?
Il romanzo è stato concepito essenzialmente come un racconto a due voci, quelle di Agar e di Sara che raccontano, ognuna secondo la propria prospettiva la vicenda che le ha viste rivali. Abramo invece è lì sullo sfondo, così impegnato nel suo viaggio verso la Terra Promessa che pare disinteressarsi del conflitto che serpeggia tra le due donne. Sembra un custode negligente che anziché vigilare si addormenta sull’uscio e permette alla discordia di intrufolarsi in casa sua. Tuttavia, il monologo finale in cui il Patriarca si racconta ai lettori e ripercorre le tappe di una vita fatta di paure e di dubbi ma sempre guidata dalla volontà di obbedire all’unico e vero Dio che lo chiama, persino quando gli chiederà di sacrificare il figlio immensamente amato, ha la funzione di compensare tutte le sue mancanze, le debolezze e le cadute lungo il tragitto. Così la terza voce, dapprima debole e sfumata, si carica di una forza inaspettata, la forza di chi crede nell’impossibile proprio quando ogni cosa sembra perduta, di chi lascia tutto – compresa la ragione – per abbracciare la fede che lo condurrà verso la piena realizzazione del disegno divino.
Tra la maternità surrogata e quella negata dove e come colloca l’aborto?
Nel mio romanzo immagino che Sara possa aver vissuto l’esperienza dolorosa dell’aborto, della perdita di una vita possibile dentro di sé e cioè l’occasione di cooperare con Dio alla realizzazione di un miracolo straordinario. Ovviamente ci riferiamo ad un aborto spontaneo e non volontario, quando con Sara diciamo che il seme della vita “non riesce ad attecchire nel terreno arido del suo grembo” oppure che “viene espulso come il peggior nemico per lasciare sul campo quelle odiate macchie rosse”.
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