5 marzo 2021
5 Marzo 2021
Per curare un malato non basta la scienza | 5 marzo 2021
Sanremo è da sempre anche il palco degli appelli. Negli ultimi anni il filo conduttore è sempre uno solo ma tralascio quale perché non mi va proprio di correre dietro all’esibizione della menzogna sull’identità, il genere, o il finto buonismo che va in onda ogni sera. Una pagina è stata davvero vera e ricca di umanità. Quella che è andata in scena con Antonella Ferrari, classe 1970, attrice.
È arrivata sul palco con il suo bel vestito rosso, la stampella che sorreggeva l’andatura claudicante e quelle parole così belle, autentiche, che sgorgavano da un cuore ferito e sofferente ma mai rassegnato. “Io non sono la sclerosi multipla, sono Antonella Ferrari”. Lo dice con forza mentre racconta il suo calvario tra mille analisi e cartelle cliniche fino alla diagnosi che lei definisce un momento di liberazione: “Da oggi potrò ricominciare a camminare in mezzo alla gente senza timore, da oggi potrò smettere di avere paura della paura, sarò semplicemente io, in cammino, luminosa anche quando sarà buio”.
Sembrano un paradosso le sue parole ma non lo sono. Una persona malata non è la sua malattia. E la malattia non deve essere affrontata solo sotto l’aspetto della cura farmacologica. È in gioco tutta la persona, i suoi sogni, i suoi affetti, il suo cuore. Antonella manifesta ed esprime il suo desiderio di essere guardata come una donna. Una donna che ha tanto da dire e da comunicare, una donna innamorata del suo lavoro.
Quando nella vita di una persona arriva la diagnosi di una grave malattia, il rischio è che tutto sia risucchiato dal buco nero delle analisi, degli esami diagnostici, delle cure adatte. Tutte cose ovviamente necessarie e doverose ma la medicina spesso dimentica che di fronte a sé, dopo una diagnosi, non ha una malattia ma una persona con una malattia. L’approccio non può essere solo scientistico.
Un grande insegnamento lo riceviamo da Gesù stesso. Egli vede nel malato una persona, guarda al suo cuore e alla totalità del suo essere. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri: egli si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche (paura di contagio) e le convenzioni religiose (timore di contrarre impurità rituale) suggerirebbero di porre una distanza fra sé e lui, come nel caso dei lebbrosi che Gesù non solo incontra strappandoli dall’isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura tocca. Gesù non guarisce senza condividere! Ciò che uccide più della malattia è la solitudine, la mancanza di dignità, la mancanza di cure amorevoli, la misericordia. Quanti cristiani durante il tempo della pandemia negli ospedali spesso sono stati lasciati senza il conforto dei propri cari e la grazia dei sacramenti.
La scienza non può essere l’unica risposta. Grazie Antonella perché in quei pochi minuti in cui hai calcato la scena dell’Ariston, lo hai ricordato con grande forza e determinazione.
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