“Sarebbe stato difficile ma avrebbe potuto vivere e invece… lo abbiamo abortito!”
Oggi la toccante storia di una coppia che ha vissuto il dramma dell’aborto: “Più che alle coppie che vivono la mia stessa situazione, vorrei rivolgermi ai ginecologi. Una famiglia ha bisogno di delicatezza e sostegno, non di sentenze di morte. Suggerire l’aborto non è una soluzione, anche in presenza di diagnosi infauste, la malattia va accettata e combattuta fin tanto che si può”.
“Quando ti propongono di abortire lo fanno senza mezzi termine, come se fosse la cosa più semplice del mondo, o come si fa una cosa buona”. Inizia così il racconto di Franca. Bionda, occhi chiarissimi, sulla trentina, una donna affascinante che però mi guarda con una malinconia negli occhi che brucia la pelle. “Se ripenso a tutto questa storia mi accorgo che in realtà si è perso il senso di ogni cosa, della vita come della morte”. “Mi dissero che sarebbe nato morto e invece…” così Franca inizia il suo racconto, lo fa facendo spallucce, un velo di lacrime lampeggia nei suoi occhi. Mi sta seduta di fronte e mentre mette in ordine i pensieri scannerizzando i ricordi, le dita si intrecciano, si cercano in una tensione emotiva che mi sembra di poter palpare. Le ho chiesto di raccontarmi la sua storia e lei ha accettato, ma ora che mi sta di fronte non sa da dove partire e quel silenzio mi permette di entrare nel suo dolore.
Era la seconda gravidanza. Un figlio voluto, cercato. Andava tutto bene quando alla morfologica il medico comunicò a lei e a suo marito che il bambino aveva una grave malformazione cardiaca. Non sarebbe mai nato, se fosse riuscito a vedere la luce sarebbe morto dopo poco: questa la sentenza, e da qui un calvario senza fine. “Decidemmo di vedere altri ginecologi. Io non prendevo proprio in considerazione l’idea di interrompere quella gravidanza. Era mio figlio”.
La trafila è lunga e dolorosa, diversi i medici ma la sentenza sempre la stessa. “E quando entri nello studio di un dottore, hai la sensazione di essere una cavia da laboratorio”. Tutto meccanico, asettico, con quella gentilezza affettata che sa di protocollo ed è tipica di chi finge ma alla fine ne vede tutti i giorni e ha perso la capacità di stupirsi di fronte al miracolo della vita così come ha perso la capacità di commuoversi di fronte al dolore. “Ti vomitano addosso sentenze di morte, poi sollevano le spalle, stringono le labbra e, scuotendo la testa, se ne vanno. In fondo il problema è tuo. Sei tu che devi scegliere”. La diagnosi sempre la stessa: malformazione cardiaca. Feto incompatibile con la vita. Non c’era speranza. “Sarebbe comunque un aborto – disse uno dei ginecologi – tanto vale…”, sorride Franca mentre ripensa a quel momento e subito dopo commentando il gesto di quel medico mi dice: “Non ebbe il coraggio di finire la frase. Lasciò cadere le parole nel vuoto perché dire morte avrebbe voluto dire che quel bambino, sebbene malformato, era comunque vita”.
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“Tutti erano d’accordo con lui, perfino mia madre. Non volevano quel figlio e alla fine hanno vinto. Ho cominciato ad avere paura del dopo. Di quello che avrei dovuto affrontare”. Aborto terapeutico, lo chiamano così. “Mi dissero che sarebbe stata una cosa veloce che non avrei sentito niente, che avrei dato la libertà a quel bambino, gli avrei impedito di soffrire”. Il protocollo è mandato a memoria, anestesia e poi via, ma ecco all’improvviso ciò che nessuno si aspetta: il vagito del bambino. Era vivo anche se piccolissimo. Franca lo sente piangere, il marito lo vede mentre il piccolo viene immediatamente assistito. Tuttavia c’è poco da fare, la morte sopraggiunge quasi subito. “Volevo fargli l’autopsia. I medici lì ci sconsigliavano anche mio marito non era d’accordo, ma io volevo farlo. Mi imposi. Urlai e alla fine ottenni l’autorizzazione a procedere. La malformazione c’era, sarebbe stato difficile, ma mio figlio avrebbe potuto farcela. Lo avevamo ucciso senza alcuna ragione”. Il sangue mi si gela nelle vene. Mi domando cosa possa provare una madre in questi momenti. “Me la sono presa con tutti, medici, infermieri, persino con mia madre, e mio marito poi… di lui non ho voluto sapere nulla per mesi e mesi. L’ho cacciato di casa ma sono dovuta andare a riprenderlo quando qualcuno mi chiamò per dirmi che lo avevano visto ubriaco per strada come un cane senza una casa. E quando l’ho visto distrutto dal dolore ho capito: era anche suo figlio. Pensava di fare la cosa giusta. In fondo il suo dolore era il mio. Ci sono voluti mesi di terapia per rielaborare il lutto, ancora oggi non so se ci sono riuscita. Una parte della mia vita si è fermata insieme al suo cuore per sempre, ma l’altra parte di me è costretta a vivere ancora. Una madre non si perdonerà mai un gesto del genere”.
Sono costretta a schiarirmi la voce più e più volte per riprendere il controllo del momento. Le domando se c’è un messaggio che vuole dare ad altre coppie che hanno ricevuto diagnosi prenatali infauste. Impiega un po’ di tempo a rispondermi: “La medicina dovrebbe aiutarci. Il progresso scientifico dovrebbe migliorare le condizioni di vita, ma talvolta tutta la tecnologia che abbiamo messo a punto ci si ritorce contro come una specie di boomerang. I sistemi di diagnosi prenatale dovrebbero aiutare il bambino e invece spesso sono solo una specie di microscopio. Servono per vedere se funziona tutto altrimenti l’aborto è dietro l’angolo. Non si può ragionare così con la vita umana, si rischia di commettere errori imperdonabili che ti segnano per sempre”. Si ferma, ragiona, poi riprende la parola. La sua voce roca perfora il silenzio intorno a noi: “Più che alle coppie che vivono la mia stessa situazione, vorrei rivolgermi ai ginecologi. Una famiglia ha bisogno di delicatezza e sostegno, non di sentenze di morte. Suggerire l’aborto non è una soluzione, anche in presenza di diagnosi infauste, la malattia va accettata e combattuta fin tanto che si può”.
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