27 gennaio 2021
27 Gennaio 2021
Possiamo ancora credere alla promessa di amore eterno? | 27 gennaio 2021
di Giovanna Abbagnara
Una coppia di fidanzati ieri sera si è avvicinata e mi ha chiesto la disponibilità ad accompagnarli verso il matrimonio, nel giugno del 2022. Mi tremano sempre le gambe di fronte a queste scelte cariche di gioia e di entusiasmo. Le domande mi assalgono: come farò con tutti i miei limiti a comunicare l’importanza di quel giorno? Della pienezza di quelle parole della promessa che sigilleranno il loro amore per sempre? Nella preghiera serale prima del riposo mi sono detta: “Dio farà bene ogni cosa. Bisogna fidarsi di Lui”.
Le parole con le quali i nubendi insieme a quelle conclusive del sacerdote che presiede il rito, li consacra sposi hanno un altissimo significato e valore e rappresentano anche uno di quei pilastri della vita coniugale che faremo bene a riprendere e meditare, specie in qui momenti in cui vediamo l’amore affievolirsi e ci sembri che tutto soccombi sotto il peso del fallimento.
Scrive Papa Francesco in Amoris laetitia: “Un amore debole o malato, incapace di accettare il matrimonio come una sfida che richiede di lottare, di rinascere, di reinventarsi e ricominciare sempre di nuovo fino alla morte, non è in grado di sostenere un livello alto di impegno. […] Perché tale amore possa attraversare tutte le prove e mantenersi fedele nonostante tutto, si richiede il dono della grazia che lo fortifichi e lo elevi”. (n. 124)
Il momento della promessa nuziale è essenziale, è il sigillo di un’alleanza. Dovremmo liberarlo da tutta l’emotività e a tratti da quel sentimentalismo fine a se stesso come una certa cultura vuole propinare in qualche fiction televisiva con il mare sullo sfondo, la spiaggia sotto i piedi e interminabili discorsi molto sdolcinati sull’amore. Questo tipo di cultura non ci aiuta a cogliere il significato pieno della promessa e ci mostra un’immagine dell’unione tra l’uomo e la donna più concentrata sulle proprie forze che sull’azione dello Spirito, più orientata sulla capacità dell’uomo che sulla grazia di Cristo. Una mentalità ahimè di cui anche i giovani fidanzati sono imbevuti e che coraggiosamente la comunità ecclesiale deve prendere in carico, portare in braccio per condurli a celebrare il sacramento in piena coscienza e responsabilità.
È chiaro che la coscienza e la responsabilità non tolgono nulla alla forza dell’amore, al sentimento, a quella trepidazione che ti assale davanti all’ora dell’amore. Quell’ora santa dove il cielo e la terra si incontrano, quell’ora che rinnova quella della Creazione “e i due saranno una carne sola…”. Quell’ora che consacra il corpo e il cuore e rende l’uomo e la donna la terra santa dove Dio camminerà, passeggerà, rinnoverà il miracolo della fecondità, sosterrà nel momento del dolore e si riposerà quando l’amore nell’unione dei corpi lancerà al cielo un suono melodioso e soave.
Dovremmo spendere molte energie per accompagnare i fidanzati a quell’ora e dovremmo anche da sposi fermarci spesso a fare memoria di quell’ora se non altro per ricordarci e rinnovare quella grazia che è stata effusa sulla coppia in abbondanza proprio in quel momento.
Ritornando al 5 giugno di 21 anni fa, in un caldissimo pomeriggio di inizio estate nella Basilica di Sant’Alfonso Maria dei Liguori a Pagani (SA), mentre ero sull’altare insieme a mio marito, uno di fronte all’altro, le mani intrecciate, gli occhi negli occhi, don Silvio tra noi in persona Christi, una bellissima statua del Sacro Cuore di Gesù di fronte a me (nei giorni della novena alla festa esattamente 100 anni dopo la consacrazione del genere umano al Cuore di Gesù da parte di Leone XIII nel 1999 appunto), con tutta la mia famiglia e la Fraternità, ricordo di aver pensato di essere sul monte Tabor. Di fare esperienza di quel momento in cui lasciati gli abiti dell’umanità di cui il Cristo si era rivestito venendo al mondo, si è mostrato ai suoi discepoli come il Figlio di Dio e invitava anche noi a camminare verso quella luce e ad indossare un giorno l’abito dell’eternità. Ho sentito che la terra tremava sotto i miei piedi e quasi le parole facevano fatica ad affacciarsi all’esterno intimorite ma la coscienza di non essere sola, in compagnia dei tanti fratelli e di Gesù stesso. Ho capito che potevamo farcela.
Le nostre fragili parole umane contenevano la forza di Dio e Lui attraverso le parole del sacerdote timbrava il nostro cuore con un sigillo indelebile. È stata una Pentecoste coniugale e non saprei dire altrimenti quella capacità di decifrare il linguaggio dell’altro, di accogliere la diversità, di restare fedeli, di vivere le pagine del dolore e della gioia se non attraverso quella sorgente di vita nuova che il momento della promessa nuziale. Aiutare i fidanzati a prendere consapevolezza è compito della comunità ecclesiale.
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