3 dicembre 2020
3 Dicembre 2020
Non giochiamo a fare i genitori moderni
di Giovanna Abbagnara
Pensavo che un padre e una madre dovessero accompagnare il figlio nella sua crescita a comprendere la sua strada. Pensavo da credente che un figlio realizza pienamente se stesso, cioè è felice, quando risponde al progetto di Dio sulla sua vita. Pensavo che cercare di cucire sulla sua anima abiti buoni, virtù che gli permettono di affrontare ogni difficoltà e le relazioni con gli altri, fosse uno dei compiti primari di un genitore. E invece… dopo aver visto il documentario intitolato Transhood uscito il 12 novembre che ha seguito per cinque anni quattro bambini cosiddetti “trans” ho dovuto ricredermi. Qui davvero sforiamo la follia. E chi permette tutto questo? I genitori, convinti di fare il bene dei propri figli e forse anch’essi vittime di un pensiero assurdo, inumano con il quale, è molto probabile, dovremmo fare i conti anche noi in Italia.
I fatti: quattro ragazzi tra i 15 e i 4 anni, provenienti tutti da Kansas City vengono sottoposti ad “una gamma completa di trattamenti terapeutici, psicologici, psichiatrici, medici, chirurgici, endocrini ed estetici” presso il Transgender Institute. Così questi minori crescono pensando di essere l’opposto di ciò che sono grazie ad “esperti” e genitori che li spingono in tal senso facendo capire che il loro è un gesto di amore nei confronti dei figli. È il caso, ad esempio, di “Jay”, una ragazza ma che si finge un maschio tagliandosi i capelli e vestendosi da uomo. Jay nel documentario dice che non vuole definirsi trans ma la mamma con orgoglio ribadisce, usando i pronomi maschili: “Lo spingerò a uscire allo scoperto e ad essere chi dovrebbe essere”. Continua la storia e si scopre che la mamma di Jay convive con una donna e che appena l’età lo ha permesso, assecondando, a suo avviso, il desiderio della figlia, le ha iniettato il testosterone mentre l’adolescente gridava: “Oh mio Dio brucia”. Emblematica la scena in cui “Jay” riceve i documenti che la riconoscono come un maschio: la compagna della madre esulta euforica mentre la ragazzina la allontana infastidita dalla sua esuberanza.
Significativa anche la storia di Phoenix che a tre anni comincia a giocare con i vestiti femminili. Basta questo a convincere la madre a incoraggiarlo a definirsi una bambina. Addirittura c’è una scena in cui il bambino viene condotto a una cerimonia religiosa in una chiesa protestante vestito da femmina e tutti l’accolgono ripetendo: “Noi ti amiamo così come sei”. C’è sempre e solo la madre. Alla fine del documentario si scopre che i genitori hanno divorziato e quando Phoenix con la mamma si trasferisce dai suoi genitori, avendo il bambino trovato nel nonno un punto di riferimento maschile, smette di vestirsi da femmina e dice: “io sono un maschio e lo sono sempre stato”.
Tutto questo sembra un incubo, eppure è la realtà e tanti altri casi potrebbero essere raccontati su un esperimento condotto in Olanda su 55 adolescenti. Siamo alla distorsione più profonda del compito genitoriale. E dobbiamo stare molto attenti perché quello che questo documentario racconta potrebbe in questo momento storico sembrare assurdo ma tra qualche anno potrebbe essere la normalità e guai a chi oserà pensare diversamente. Forse dovremmo riflettere su quel che scriveva Hannah Arendt quando, nel prologo al suo “Vita Activa”, parlando del progresso scientifico allora rappresentato dal volo del primo satellite nello spazio, parlava di un “desiderio di sfuggire alla condizione umana”, quasi profetizzando «Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto. […] Se la conoscenza (nel senso moderno di know how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercè di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale».
Cari genitori siamo schiavi di un cattivo pensiero di libertà e di educazione. Un pensiero che in nome della soddisfazione personale e dei desideri realizzabili sfida le leggi della natura, ci strappa il compito di indirizzare al bene e ci catapulta in una dimensione evanescente dove nulla è definito. È nostro dovere restare vigilanti e lucidi. Per il bene dei nostri figli.
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