24 novembre 2020

24 Novembre 2020

Il dolore come strada di conversione

di Giovanna Abbagnara

“Ritorniamo a sognare” sembra un appello, un grido più che un titolo di un libro che uscirà il 1 dicembre edito da Piemme. Ed è forse proprio questa l’intenzione dello scrittore e giornalista britannico Austen Ivereigh che nel volume realizzato in conversazione con Papa Francesco cerca di riflettere sulla pandemia e non solo. Questa crisi infatti dice il Papa, è solo “più visibile” di altri drammi che continuano a ferire l’umanità. E cita i paesi in guerra, la povertà che imperversa, le malattie incurabili passate in secondo piano.

In questa situazione di crisi e di smarrimento generale, il Papa indica una via d’uscita, quel filo d’Arianna della creatività che i credenti individuano nell’opera dello Spirito «che ci chiama fuori da noi stessi». Perché il «peggio» che possa accadere «è restare a guardarci allo specchio, intontiti da tanto girare attorno senza mai uscire dal labirinto». E per venire fuori c’è una sola strada: abbandonare la cultura “selfie” e andare incontro agli altri. Perché «sono gli altri, attorno a noi, che, come Arianna, ci aiutano a trovare vie di uscita, a dare il meglio di noi stessi».

 

Come ad un pranzo in famiglia, nel suo stile semplice, il Papa comincia a raccontare tre periodi particolarmente dolorosi della sua vita, li chiama tre “situazioni Covid” dove l’isolamento, la malattia, la solitudine hanno regnato sovrane. “Quando a ventun anni ho contratto una grave malattia, ho avuto la mia prima esperienza del limite, del dolore e della solitudine. Mi ha cambiato le coordinate. Per mesi non ho saputo chi ero, se sarei morto o vissuto. Nemmeno i medici sapevano se ce l’avrei fatta. Ricordo che un giorno chiesi a mia madre, abbracciandola, di dirmi se stavo per morire. Frequentavo il secondo anno del seminario diocesano a Buenos Aires. Ricordo la data: era il 13 agosto 1957. A portarmi in ospedale fu un prefetto, accortosi che non avevo il tipo di influenza che si cura con l’aspirina. Per prima cosa mi estrassero un litro e mezzo di acqua da un polmone, poi restai a lottare tra la vita e la morte. A novembre mi operarono per togliermi il lobo superiore destro del polmone. So per esperienza come si sentono i malati di coronavirus che combattono per respirare attaccati a un ventilatore”. Il Papa cita con dovizia di particolari le persone che lo hanno sostenuto durante quel tempo: suor Cornelia e l’infermiera Micaela fra tutti. Ma poi cita un momento particolare: “La persona che più mi ha toccato nell’intimo, con il suo silenzio, è stata una delle donne che mi hanno segnato la vita: suor María Dolores Tortolo, mia insegnante da piccolo, che mi aveva preparato per la Prima Comunione. Venne a vedermi, mi prese per mano, mi diede un bacio e se ne stette zitta per un bel po’. Poi mi disse: «Stai imitando Gesù». Non c’era bisogno che aggiungesse altro. La sua presenza, il suo silenzio, mi donarono una profonda consolazione”. Quel momento ha segnato profondamente il Pontefice: “Dopo quell’esperienza presi la decisione di parlare il meno possibile quando visito malati. Mi limito a prendergli la mano”.

La seconda esperienza Covid è segnata invece dalla solitudine e dall’allontanamento dal suo Paese e dai suoi cari. È il periodo del 1986 quando si recò in Germania per studiare la lingua e concludere la sua tesi. Bergoglio racconta della nostalgia, del giorno in cui non volle vedere la partita in cui l’Argentina vinse i mondiali. “Era la solitudine di una vittoria da solo, perché non c’era nessuno a condividerla; la solitudine di non appartenere, che ti fa estraneo. Ti tolgono da dove sei e ti mettono in un posto che non conosci, e in quel mentre impari che cosa conta davvero nel luogo che hai lasciato”. Ma, aggiunge: “A volte lo sradicamento può essere una guarigione o una trasformazione radicale”.

E infine racconta la “punizione” di essere stato mandato a Córdoba dal 1990 al 1992, perché nei suoi modi di provinciale e poi di rettore c’era un tratto di durezza che doveva essere smussato. “A Córdoba mi hanno reso il favore e avevano ragione. In quella residenza gesuita trascorsi un anno, dieci mesi e tredici giorni. Celebravo la Messa, confessavo e offrivo direzione spirituale, ma non uscivo mai, se non quando dovevo andare all’ufficio postale. Fu una specie di quarantena, di isolamento, come nei mesi scorsi è successo a tanti di noi, e mi fece bene. Mi portò a maturare idee: scrissi e pregai molto. Il “Covid” di Córdoba è stato una vera purificazione… È stato un periodo di crescita in molti sensi, come tornare a germogliare dopo una potatura a fondo”.

Una condivisione semplice, dove il Papa mette a nudo le sue ferite e lascia intravedere la luce che passa attraverso questi momenti di sofferenza. Una luce che dobbiamo cercare di afferrare con gli occhi della fede. La tempesta quando arriva può inasprirci, renderci cattivi, farci rinchiudere ancora di più nelle nostre certezze o può rompere le corazze, aprirci alla grazia di Dio, educarci a condividere, ad esercitare l’arte della consolazione. Ma non “quella a buon mercato” dice il Papa, fatta di parole di circostanza, piuttosto quella che ti stringe la mano e dice: “Io sono qua”, “Tu partecipi al dolore di Cristo”, “Io non ti lascio da solo”. Ai cristiani non è chiesto di indagare sul perché del male e della sofferenza, ai cristiani è chiesto di abbracciare la croce e di portarla insieme a Cristo. È questa la strada della conversione.

Santa Teresa di Gesù Bambino ha vissuto nella sua breve vita molte esperienze di dolore e di solitudine. Negli ultimi mesi, la sua sofferenza era atroce, poiché alla malattia del petto si aggiunse la tubercolosi agli intestini, che portò con sé la cancrena. Le ultime parole che Teresa pronunciò sulla terra, guardando il suo Crocifisso pochi istanti prima di spirare, furono: «Oh, io l’amo! Mio Dio… io vi amo…». Parole d’amore in una morte d’amore, anche se troppo spesso ci si dimentica da quale terribile croce esse si siano innalzate verso il Padre celeste.


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