9 novembre 2020

9 Novembre 2020

Sacerdoti come medici, la salvezza dell’anima prima di tutto

“Sono sempre qui. Se qualcuno mi chiama, io mi vesto e salgo: tra la mia stanza ed il reparto Covid19 c’è solo una rampa di scale. Sono sempre disponibile, per tutti”: sono le parole piene di consolazione di don Marco Galante, 46 anni, sacerdote della Diocesi di Padova che è stato mandato dal suo vescovo Mons. Claudio Cipolla nell’ospedale di Schiavonia, trasformato nuovamente in un polo Covid-19. Don Marco Galante, da sei anni cappellano nel presidio di Monselice dell’Ulss 6 Euganea e amministratore di quattro parrocchie ai piedi dei Colli Euganei, vive vicino ai malati Covid e al personale ospedaliero.

Ogni mattina don Marco, dopo la preghiera personale, compie la lunga manovra di vestizione con tuta, mascherina, guanti come i medici e gli infermieri e si reca nei reparti per incontrare i malati e portare loro conforto. Celebra poi la Messa nella piccola Cappellina dotata di telecamera e mandata in onda sulle tv poste nelle camere dei degenti e infine a sera si collega con i suoi parrocchiani per recitare insieme la Compieta e trovare conforto in quell’amicizia ecclesiale che in questo momento gli dona la forza di vivere la sua missione come Cappellano.

«La Chiesa di Padova – spiega il vescovo Claudio Cipolla – si sente interpellata dall’emergenza che sta avanzando e vuole porre un segno ecclesiale per invitare tutti i cristiani e le comunità a stare vicini a chi si trova coinvolto dalla sofferenza: ammalati, familiari, operatori sanitari». E annunciando la decisione di mandare don Marco presso l’ospedale di Schiavonia ha detto: «Per indicare che i cristiani sono chiamati a servire la vita in tutti i suoi momenti, anche quelli della malattia, ho incaricato un prete della nostra Diocesi per una missione particolare: stare 24 ore su 24 presso l’ospedale di Schiavonia a disposizione dei malati di Covid, dei loro familiari, degli operatori sanitari: un modo per annunciare il Vangelo della vita, un segno per invitare tutti a servire la vita e a testimoniare che Dio ama la vita, questa nostra vita umana anche nei suoi momenti più estremi». Fanno eco le parole del sacerdote: «Il mio non è un atto eroico ma una chiamata, segno di tutta la Chiesa che si fa prossima ai sofferenti. E quando c’è una chiamata non si può che rispondere: eccomi! Ma ci tengo a precisare che il mio non è assolutamente un atto di eroismo: in tutta Italia, tanti cappellani ospedalieri dedicano la loro vita ai sofferenti».

La testimonianza di don Marco e di tanti che come lui si dedicano a restare accanto a chi soffre, ci aiuta anche a guardare questo tempo con gli occhi dei cristiani che di fronte al dolore e alla sofferenza coniugano il verbo “restare”. Restare per non far mancare a nessuno la consolazione di una presenza e di una vicinanza lì dove il virus ha richiesto lontananza e distanziamento. Restare per non far mancare la consolazione della preghiera, una preghiera di supplica e di intercessione per chiedere la guarigione ma soprattutto la grazia di poter vivere con forza il tempo della prova. Restare per portare il pane di vita, l’Eucaristia, perché il cristiano ha bisogno fortemente di nutrire la sua anima della presenza del Salvatore. E infine, non meno importante, restare per testimoniare agli altri che la Chiesa è concretamente accanto ai suoi figli.

Don Marco non è un eroe. Semplicemente un presbitero dovrebbe continuare, in questo tempo particolare ad essere un segno di speranza e non bastano solo le Messe on line o qualche benedizione via telefono. Così come i medici restano al fianco dei loro malati, così i pastori, con tutte le precauzioni necessarie dovrebbero restare vicini al popolo loro affidato, preoccupandosi della salvezza delle loro anime.


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