6 novembre 2020
6 Novembre 2020
Partorire in anonimato: una speranza per sé e il bambino
di Giovanna Abbagnara
Il bambino abbandonato a Ragusa in un cassonetto della spazzatura mi ha riportata con il cuore e la mente a Ester e al suo bambino.
È bella Ester. Quando l’ho incontrata per la prima volta non ho potuto fare a meno di notare i suoi bellissimi occhi scuri incorniciati da un viso perfetto, le labbra carnose, il fisico minuto. Nascondeva questa bellezza gentile dietro a miriadi di tatuaggi con i quali ha segnato il suo corpo, compreso il viso. E poi i capelli, colorati di sfumature dal rosa al rosso. Sembrava un pulcino con l’abito di Paperon de Paperoni.
Aveva una luce negli occhi. Ti guardava con aria di sfida. Nonostante avesse poco più di vent’anni, aveva attraversato già tante tempeste: la separazione dei suoi genitori, un rapporto violento e complicato con il padre, un fratello che soffriva di disturbi psichici, una madre lontana che si era rifatta una famiglia.
Lei aveva scelto di vagabondare. Di uscire di casa ogni mattina senza un programma. Di solito la potevi trovare davanti ad un centro commerciale di un paese vicino con una birra in mano a cercare di racimolare pochi euro chiedendo l’elemosina. Più un capriccio che un’esigenza vera. In fondo una casa ce l’aveva. Solo che il papà, con il quale viveva, aveva deciso di tagliarle i viveri. Aveva combinato troppi guai.
Quel pomeriggio ci siamo seduti una di fronte all’altra. Tacitamente e senza deciderlo, nessuna delle due indossava la mascherina. Eppure eravamo in piena emergenza sanitaria. Sapevamo che quel colloquio era importante. Forse per questo abbiamo ognuna in cuor suo deciso che le parole dovevano uscire fuori senza filtri. La prima cosa che mi ha detto è stata, frugando nervosamente nella sua borsa: “La preparo ma non l’accendo”. Sono poco pratica dell’arte del tabacco. Non ho mai nemmeno messo in bocca una sigaretta nemmeno per il gusto di farlo. Il fumo non lo sopporto ma mi sono ricordata che una mia amica mi aveva detto che spesso le donne fumano per rilassarsi. Allora le ho detto: “Se vuoi, puoi fumare”. Non avevo nemmeno finito la frase che ha preso l’accendino e ha cominciato a boccheggiare come una piccola ciminiera. Ne sono seguite altre mentre mi raccontava la sua storia. Si fermava solo per ingurgitare voracemente qualche dolcetto che alcuni volontari avevano preparato per lei. Non si è mai toccata la pancia. Nessun gesto materno. Non mi era sfuggito quel particolare.
Fino a quel momento avevamo solo parlato telefonicamente. Ero stata contattata 7 mesi prima da un membro del movimento di Chiara Amirante. Una ragazza dolcissima e appassionata che cercava di aiutare Ester da tempo. Quando ha saputo che era in attesa, ha pensato di chiedere aiuto e mi ha chiamato. Abbiamo trascorso molte ore al telefono analizzando la situazione di Ester e decidendo le parole giuste da usare. Contro ogni logica, vista la situazione e mentre tutti consigliavano di abortire, noi sapevamo che interrompere la gravidanza del “criaturo”, appellativo che Ester aveva deciso di dare a suo figlio, non avrebbe fatto altro che aggiungere male al male. Sapevamo che non sarebbe stato semplice ma nonostante un tentativo di internarla per farla abortire, Ester scelse di portare avanti la gravidanza. Da un giorno all’altro cambiò la sua vita. Scelse di restare a casa. Rintanata nella sua stanzetta con il cane che adorava, in un disordine di scarpe, vestiti, salatini, trascorreva le sue giornate. Quando è arrivato il lockdown sono stata contenta. Un motivo in più per restare a casa. Durante quei mesi non ha toccato un goccio di alcool, né ha fatto uso di sostanze. “Ho fumato pochissimo” mi ha detto soddisfatta. Nonostante a tutti volesse apparire ribelle e fuori le righe, io vedevo in lei una mamma disposta a proteggere il suo bambino.
Ora il parto si avvicinava e bisognava però aiutarla a decidere cosa fare. Quel pomeriggio abbiamo vagliato ogni possibilità. Compresa quella di andare insieme al bambino in una casa di accoglienza. Ero arrivata a quell’incontro però con nessuna soluzione. La pandemia aveva rallentato anche il sistema delle accoglienze purtroppo. Intanto Ester mi diceva che la situazione a casa era peggiorata. Nessuno della famiglia era disposto a farsi carico di lei. Aveva combinato troppi casini. Nessuno si fidava. Così abbiamo parlato dell’eventualità di partorire in anonimato. Le ho spiegato la procedura con calma, comprese tutte le conseguenze. Pesavo le parole una ad una e cercavo di scorgere una qualche reazione. Lei mi ha ascoltato attentamente. Alla fine del colloquio aveva abbandonato l’aria di sfida per un sorriso dolcissimo. Non sono state necessarie altre parole.
Quando è giunto il momento Ester ha partorito da sola chiedendo il parto in anonimato. Era la fine di maggio. “Sei stata una guerriera” le ho scritto. Lei mi ha risposto: “Grazie. Il criaturo sta bene?”. Era un maschio. Non aveva voluto fare nemmeno un esame fino al momento di partorire. Il bambino quando è nato non ha pianto, non si muoveva, si è temuto il peggio. Nel giro di pochi giorni invece tutto è rientrato. Lei continuava a chiedere se stesse bene, quando ha saputo che poteva finalmente andare dalla famiglia adottiva, non ha battuto ciglio.
Non è una storia a lieto fine. Ester ha ripreso la sua vita da vagabonda e non mi ha più risposto a telefono. Cerco di mantenermi aggiornata sulla sua vita e ogni giorno la porto con me nella preghiera. So che da qualche parte il suo sangue scorre nelle vene di un bambino che oggi ha una mamma e un papà che lo adorano. Sono certa che quel cordone che ha reciso per dare a suo figlio la possibilità di vivere una vita felice, un giorno sarà l’innesto per la sua rinascita. Il bene porta sempre frutto.
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