24 settembre 2020

24 Settembre 2020

Hafsa, l’abbraccio con il papà e la mamma e il dolore condiviso

di Giovanna Abbagnara

Sondrio – Dopo lunghi e interminabili venti giorni, quattrocentottanta ore, disperate ed estenuanti ricerche, il fiume Adda ha deciso di riconsegnare alle braccia dei suoi genitori, Hafsa Ben Daoud, la 15enne marocchina inghiottita dalle acque il 1° settembre scorso. Non si era mai dato per vinto il padre, Hamed, 37 anni, operaio in una falegnameria, rientrato dal Marocco appena informato della scomparsa della sua bambina: ogni giorno, raggiungeva il fiume in bicicletta e si tuffava nuotando per cercare la ragazza. Usciva, rimaneva in sosta sulle sponde, riacquistava le forze e, disperato, si tuffava di nuovo. “Non posso restare fermo – aveva dichiarato Hamed – mi do da fare a cercare mia figlia. Sono capace di nuotare, ma non rischio. Rimango vicino a riva. Guardo nell’acqua torbida, dove forse è rimasta incagliata”. E molto probabilmente aveva ragione considerato che la figlia è stata ritrovata a 500 metri dal luogo della tragedia. È stata per giorni incastrata in qualche punto frastagliato del fiume fino a che la forza dell’acqua l’ha riportata in superficie.

Le ricerche per papà Hamed sono finite e con esse anche quella sottile speranza che alberga nel cuore di chi ama e spera sempre in un miracolo, spera sempre di veder ricomparire da un momento all’altro chi ti ha lasciato senza neanche salutarti. Ora bisogna fare i conti con un’assenza reale, concreta. Un’assenza che dà al dolore il volto di un corpo su cui piangere, un corpo da preparare secondo i riti e i costumi della propria religione, un luogo dove andare quando la mancanza diventa insopportabile e magari lì perdersi in monologhi lunghissimi nella piena convinzione di informare chi non c’è più sulle ultime novità familiari.

Spesso mi assale una grande nostalgia di mia nonna. Ha vissuto con me e la mia famiglia molti anni e successivamente quando mi sono sposata, lei praticamente era nella porta accanto. Aveva 94 anni quando è salita a cielo, aveva dunque vissuto una lunga vita fatta di tante gioie ma di altrettanti dolori: vedova a 49 anni, un figlio perso a 6 mesi di gravidanza, due figlie venute a mancare nel pieno della vita adulta quando erano a loro volta mamme, un tumore superato con determinazione… insomma vivere a lungo è decisamente auspicabile ma bisogna mettere in conto che molti anni corrispondono anche a molti dolori. E a tanta esperienza. Quando devo prendere qualche decisione difficile per la mia vita, vado da lei, a “sfogarmi un po’ sulla sua tomba”.

Dopo il mio apparente soliloquio (so che lei sente tutto!), non posso però fare a meno di notare una donna, una mamma. È sempre lì. Ogni mattina. Pulisce quel marmo bianco con una lentezza e una minuziosità incredibile. Sistema i fiori freschi e profumati. Depone un bigliettino. Poi si siede e comincia a recitare il Rosario. La voce non mi arriva. La sua è una preghiera che non è ancora capace di sopportare le onde del suono. Tante volte ho cercato in me il coraggio di avvicinarla per parlarle. Dirle qualche parola di speranza. Ma finiva sempre che andavo via incapace di riempire quei pochi metri di distanza. Poi la settimana scorsa mi sono decisa ad avvicinarmi. Non ho parlato. Lei mi ha rivolto un sorriso carico di dolcezza. Io mi sono seduta accanto a lei. E in silenzio ognuno ha pregato il suo Rosario. Dopo mi sono alzata e andando via le ho augurato buona giornata. Tutto qui? Tutto qui. Come dare voce al dolore per la perdita di un figlio? Spesso è solo necessario avere qualcuno con cui condividere. Penso ai genitori di Hafsa, a quell’abbraccio che finalmente li ha ricongiunti, a quei gesti che li aiuteranno a prendere coscienza della sua morte, e spero che troveranno amici e fratelli con cui condividere tutto questo.


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