Musica

Quando il tormentone estivo è un inno sacro

di Vito Rizzo

Il testo della canzone che impazza in queste settimane estive, Jerusalema, è un inno a Gerusalemme dal sapore biblico, un omaggio alla Città Santa come tanti che ha elevato il popolo di Israele nei secoli della propria millenaria storia.

In piena pandemia da Coronavirus, parlare di “effetti virali” anche in merito alla diffusione dei tormentoni estivi può sembrare forse inappropriato, ma è proprio quello che è successo in queste settimane con la Hit dell’estate 2020. Una canzone ballabilissima, opera del musicista e produttore sudafricano Master KG, che nel giro di poche settimane è diventata uno dei brani più riprodotti in Italia e nel mondo.

La si vede ballata da gioiosi bambini africani, da attempati vecchietti da balera, da improbabili casalinghe in vacanza, da ragazze in bikini in spiaggia o da giovani nel bel mezzo della movida.

Del testo si comprende poco, è del resto cantato in lingua venda, un idioma bantu parlato in Sud Africa e Zimbawe, ma una parola si comprende bene, è Jerusalema, Gerusalemme, nome che dà anche il titolo alla canzone.

Su Youtube il video oroginale del brano di Master KG vanta quasi 50 milioni di visualizzazioni, altri migliaia di visualizzazioni per le video-cover, su Tik Tok impazza il Jerusalema Challenge, un filmato autoprodotto sulle note della Hit estiva, anche su Facebook sono migliaia le condivisioni e i post delle diverse coreografie in circolazione.

Fin qui il fenomeno di costume, ma cosa dice il testo della canzone?

Bene, il testo è un inno a Gerusalemme dal sapore biblico. Un omaggio alla Città Santa come tanti che ha elevato il popolo di Israele nei secoli della propria millenaria storia, gli inni di Davide e del suo popolo, un inno che ciascun cristiano sente di far proprio come Gesù prima di essere consegnato al Suo destino: “Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore». E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore. Là sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide. Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: «Su di te sia pace!». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene”.

Solo sentendo riecheggiare il Salmo 121 si può cogliere la forza della preghiera che pervade questa canzone in lingua venda: «Gerusalemme è la mia casa. Guidami. Portami con te. Non lasciarmi qui. Gerusalemme è la mia casa. Guidami. Portami con te. Non lasciarmi qui. Il mio posto non è qui. Il mio regno non è qui. Guidami. Portami con te. Non lasciarmi qui. Il mio posto non è qui. Il mio regno non è qui. Guidami. Portami con te…».

Non si sa dunque se gioire per una preghiera che viaggia, inconsapevolmente, sulla bocca di tutti; che porta, inconsapevolmente, un messaggio di pace e di speranza all’intera umanità; per un inno sacro che è diventato un fenomeno pop.

O se notare le troppe stonature di coreografie che piuttosto che inneggiare alla sacralità della vita e della felicità, cantano la banalizzazione della leggerezza di massa.

Forse partire dalla consapevolezza delle parole è il primo passo per pregare la gioia autentica della vita, e farlo anche a ritmo di un tormentone dance.

O forse il segreto è proprio nel testo; se non compreso, maltrattato: «il mio posto non è qui!».




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