Amicizia

In una notte insonne la morte mi ha spiegato la vita…

Dandelion

di Michela Giordano

Ho perso un amico. Una persona buona, talmente buona da non crederci. Siamo così abituati al male che il bene ci disorienta, eppure le persone buone esistono e il mio amico era uno di loro.

È stata una notte insonne, una di quelle in cui dormire non risulta possibile, perché i pensieri fanno troppo rumore. Ho perso un amico. Una persona buona, sempre disponibile, sorridente. E giovane. Se ne è andato in due mesi. Probabilmente non è lo stato d’animo più adeguato per scrivere, o forse il migliore. A ben pensarci, i pezzi più significativi li ho prodotti proprio dopo nottate come quelle appena trascorsa, come se il caos nella mia testa fosse stimolo per le mani. Le parole prendono forma senza troppa fatica e vederle lì, fissate su uno schermo, mi aiuta a dare ordine ai pensieri. 

Non è semplicemente commozione per una giovane vita spezzata; non è la pena per genitori inconsolabili; quello che non mi ha fatto dormire è il turbamento per la mancanza di un “perché”, di un “senso”. Da ore Facebook è traboccante di luoghi comuni “un fiore per il paradiso”, “un angelo che veglia su di noi” e altre stucchevoli suggestioni di questo tipo. La verità è che doveva restare ancora con noi, che non è giusto, che fa male.

Non è la prima volta che vedo morire una persona giovane. Quando ero adolescente, d’improvviso, ci lasciò un’amica: andò a letto e non si svegliò mai. Così, davvero senza un perché. Avevamo 16 anni e quella fu la fine vera dell’infanzia, intesa come età senza pensieri e responsabilità, un “tornante” delle nostre storie personali. Il rischio è di restare paralizzati dalla paura, entrando in una sorta di vortice, di psicosi. Io la supero, ogni volta, con la volontà di essere migliore dei miei turbamenti. Una gran fatica.

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Stamattina, ad esempio, sono determinata a mettere da parte la rabbia, che mi attanaglia, rosica l’anima, appesantisce. Con questo amico avevamo molti disaccordi: idee politiche opposte, ad esempio. Ci confrontavamo spesso alzando la voce. Ma ci univa più di quanto ci dividesse. Era un buono. Non nell’accezione di “fesso”, che tante volte viene declinata dalle nostre parti, ma nel senso più genuino del termine. Innamorato della Vergine di Lourdes, ogni anno, da sempre, accompagnava i malati del treno bianco della PUACS di Pagani e quelle erano le sue ferie, dopo un anno di lavoro. Io lo prendevo in giro: “Ma vattene a Ibiza”. E lui rispondeva: “Ci dovresti venire anche tu”. Lo racconto per riflettere su una circostanza in particolare: siamo così abituati al male, che il bene ci disorienta; la vita ci propone così tanta cattiveria gratuita che, al cospetto della bontà, alziamo il muro della diffidenza. A me capita di pensare “chissà che fine ha” o “vuole qualcosa” o “avrà un guadagno” se mi imbatto in inaspettate cortesie. Qualche volta ho ragione, perché non è che siamo proprio circondati da santi, ma qualche volta no. Sbaglio clamorosamente. Le persone buone esistono. Il bene ci circonda. Non per giustificarmi, ma credo che mi abbiano indurito le fregature: disponibilità e fiducia tradite tante volte da chi avevo accolto nella mia vita. Tuttavia non voglio cedere alla negatività e ho deciso di fare così: se posso, faccio e me ne frego di cosa se ne farà, della mia mano tesa, chi la afferra. Mi parla alle spalle? Mi critica? Problemi suoi. Altrimenti non se ne esce. È, per me, l’unico modo per arginare la banalità del male, che, a volte ti divora. A questo ho pensato stanotte. E la morte mi ha spiegato la vita.




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