Coronavirus

Oggi è il tempo della speranza e della responsabilità, poi verrà quello delle polemiche…

di Michela Giordano

Io mi sono ritrovata a ripetere le raccomandazioni di mia nonna, adolescente durante il secondo conflitto mondiale: “Non sciupiamo il pane”, “non buttiamo le scorze del formaggio”, “disinfetta con la candeggina”. E, come mia nonna, prima di andare a dormire, mi “metto a letto, con l’angelo perfetto e con santa Margherita…”.

Stiamo vivendo settimane terribili: il tempo della paura e della disperazione. Pochi avvenimenti, nella storia dell’umanità, hanno segnato, ad oggi, un “prima” e un “dopo”. Partendo dal secondo conflitto mondiale, forse solo la caduta del muro di Berlino e l’attentato alle Twins Tower hanno scandito un cambio di passo, un diverso modo di pensare, la nascita di un nuovo ordine mondiale. Farà così anche il covid19. Quando l’incubo sarà finito, tutto muterà: l’organizzazione della sanità pubblica, i rapporti umani, la politica. Stiamo imparando a rispettare regole, file, distanze. Insegniamo ai nostri bambini di starnutire nell’incavo del gomito, lavarsi le mani “strofinando il sapone almeno per 40 secondi”, ma non solo. Io mi sono ritrovata a ripetere le raccomandazioni di mia nonna, adolescente durante il secondo conflitto mondiale: “Non sciupiamo il pane”, “non buttiamo le scorze del formaggio”, “disinfetta con la candeggina”. E, come mia nonna, prima di andare a dormire, mi “metto a letto, con l’angelo perfetto e con santa Margherita…”, una preghiera che mi aveva insegnato negli anni in cui abbiamo condiviso le notti, a casa sua. Non credevo neanche di ricordarmele più, quelle parole, in dialetto stretto, che mi faceva pronunciare prima di addormentarmi e invece me le sono ritrovate sulle labbra e nel cuore, nei primi giorni di questo incubo, quando ho avvertito particolarmente la sensazione della solitudine. 

Nulla sarà più come prima. Dalla tv e dai social media, la realtà fuori dalla mia porta mi atterrisce. Vivo in una casa lontana da casa e non mi sono mai mancate così tanto mia madre, le mie sorelle, mia nipote. Ho nostalgia perfino dei gatti, Jack e piccolo Maggio, che solitamente mi fanno la guerra, captando la mia antipatia nei loro confronti. Cerco di essere ottimista, di credere fortemente a quel “andrà tutto bene” che mia figlia, 4 anni e mezzo, ha scritto su uno striscione che abbiamo esposto dal balcone. Ha disegnato un arcobaleno sbilenco, un cuore, un fiore. Con la plastilina e pezzi di uno spaghetto crudo, ha creato un piccolo modello del coronavirus, conservandolo nella vetrinetta dei ricordi: “Ce lo porteremo nella prossima casa, così ci ricorderemo di Modena”. È incredibile quante cose capiscano i bambini, a dispetto di quello che crediamo noi adulti. E quanto sappiano insegnare, con il loro cuore puro, non ancora contaminato da inutili sovrastrutture. Qualche giorno fa, mentre borbottavo per la mia quinta raccolta, in poco più di 3 ore, delle costruzioni dal pavimento, mi ha detto: “Mamma, non ti arrabbiare, pensa a quelli che stanno all’ospedale”. 

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Oggi è il tempo della speranza e della responsabilità. Poi verrà quello delle polemiche. Mi sono segnata qualche spunto: la campagna elettorale avviata sui morti, la speculazione economica sulla paura, il razzismo tra Nord e Sud, le indecorose dispute pubbliche tra baroni universitari. Ci sarà il tempo per riflettere sull’inadeguatezza di una parte della comunicazione sui social, con tanti, troppi lavoratori o volontari, che, nello svolgere una lodevole azione di sostegno alle popolazioni, hanno scattato decine e decine di foto di cattivo gusto, che perdevano di vista la pur necessaria condivisione col grande pubblico dell’opportunità di essere aiutati. Ragioneremo, più avanti, di chi non abbia saputo assumersi la responsabilità di decidere o di chi, al contrario, abbia deciso in maniera sbagliata; indicheremo al momento opportuno chi abbia costruito profili di carriera sull’emergenza: è sempre accaduto. È nei conti, ma non possiamo darlo per scontato, includendolo in maniera ineludibile nei costi da pagare. Ora, però, non è il tempo per discutere, ma quello di tacere. 




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