L’uomo e l’arte

Dallo splendore rinascimentale al post-umanesimo, dove è finito il volto dell’uomo?

Michelangelo, Studies for the Libyan Sibyl (particolare - MET New York

di Ida Giangrande

Cosa succede se all’uomo togliamo Dio? Non è un problema di matematica, la risposta a questa domanda è impressa nelle tele degli artisti di ogni epoca. Da Raffaello a Munch la parabola di un declino: quello dell’uomo.

Negli ultimi tempi ripenso spesso ai giorni in cui hanno vissuto i grandi maestri della pittura rinascimentale, Michelangelo, Raffaello, Leonardo, tanto per citarne alcuni. Se chiudo gli occhi il pensiero corre subito a Sandro Botticelli e alla sua musa, Simonetta Vespucci, rappresentata in varie opere, “La nascita di Venere” (1486), “Primavera” (1482). E, dalle reminiscenze dei miei studi universitari, ecco saltare fuori la storia dell’amore tra Dio e l’uomo immortalata negli affreschi della volta della Cappella sistina (1508-1512) dal gagliardo Michelangelo. E, per finire, contemplo la bellezza misteriosa che si condensa nella “Gioconda” (!503-1504) del grande Leonardo. Tesori immutabili che evocano in me una certa fierezza per la mia Patria, prima culla della civiltà e poi quella del rinascimento. I maestri di quell’epoca hanno impresso una caratteristica dominante anche alla tradizione dei secoli successivi, in quel sottile intreccio di luce e colore da cui Leonardo tirerà fuori la tecnica dello sfumato, emerge, con raffinata potenza un’immagine nitida, precisa e armonica: il volto dell’uomo. Che si tratti di un maschio o di una femmina, di una dea o di un angelo, poco importa, la caratteristica dominante è la compostezza dell’immagine, l’armonia del volto, la magnificenza del corpo umano. Eppure tutta questa bellezza non era finalizzata all’uomo, c’era sempre qualcosa di sacro che inevitabilmente spingeva l’occhio dello spettatore dalla perfetta imperfezione della creatura alla potenza del suo Creatore. Finanche il tenebroso Caravaggio, non potrà fare a meno di realizzare, pur nella sua ruvida concretezza, il ritratto degli uomini e delle donne del suo tempo con la dovizia di particolari tipica di una fotografia. Ma che cosa è stato del volto dell’uomo nei secoli successivi?

La mia mente non chiede il permesso e procede, per grossi salti, di secolo in secolo per offrirmi i capolavori più significativi di tutte le epoche come attraverso un collage che offre una visione completa di un paesaggio frammentato. Nell’Impressionismo di Monet la luce è pervadente, morbida come una mano curiosa indaga tutte le cose, gli orizzonti lontani e gli oggetti vicini, ma qualcosa comincia a cambiare: i contorni del volto umano diventano meno distinti. Ed ecco che nell’ultimo battito di ali dell’800 ci penserà Vincent Van Gogh a definire la persona con quelle sue pennellate dinamiche, volutamente schizofreniche dove il colore sulla tela sembra acquisire un movimento formicolare. All’alba del Novecento, mentre Friedrich Nietzsche urlava “Dio è morto”, dalla Norvegia, ecco arrivare Munch, Edward Munch e il suo urlo. Un’opera talmente sottile che gli ci vollero svariati bozzetti prima di arrivare alla versione definitiva (1893-1910). Sul sentiero che fugge in prospettiva tagliando il cielo sanguigno, si staglia la figura di un uomo che si comprime la testa per lanciare un urlo disperato. Il volto perde ogni forma e colore, l’immagine nitida e chiara della compostezza dei quadri rinascimentali è solo un lontano ricordo: l’uomo ha paura, è angosciato, ha la percezione interiore che qualcosa gli stia sfuggendo ma non sa cosa.

Ecco allora comparire sulla scena Pablo Picasso, i colori forti dei suoi ritratti, il viso fatto di pezzi spigolosi lontani dalla concretezza dove l’ordine sta nel disordine della figura. Dal Cubismo all’Astrattismo il passo è leggero, l’uomo c’è ma sembra essere esploso in quell’intreccio di linee e colori, che si perdono in vortici profondi. Mi sembra che gli artisti, come collegati l’uno all’altro, abbiano voluto comunicarci un disagio profondo che nei secoli si è amplificato sempre di più: la perdita del sacro. Già dall’Ottocento la religiosità di molti quadri è piatta ridotta a pratica cultuale. Il divino è stato progressivamente escluso dalla dimensione umana almeno per gran parte, anche Gesù non è più Cristo. Ora è l’uomo ad occupare tutta la scena. L’uomo che determina sé stesso, che decide il suo futuro e, paradossalmente, come in un’equazione perfetta, la sua immagine diventa sempre più confusa. Ecco spiegata l’angoscia, la tristezza, il disorientamento e la disperazione di Munch: l’uomo senza Dio, perde se stesso. Perde la propria immagine.

A quel punto la mente si ferma, come fossi arrivata all’ultima pagina del mio personale manuale di storia dell’arte. Ci sono altre epoche, altri secoli, eppure io mi domando: come ci definiranno dopo di noi? Ancora una volta la risposta mi viene dall’arte e il nome mi mette un’inquietudine da urlo di Munch appunto: post-umanesimo, trans-umanesimo. Neologismi creati apposta per definire una società dove il tratto umano si fonde con quello tecnologico, e quello che ne viene fuori è un ibrido, un uomo che ha superato sé stesso e ha finito col perdersi per viaggiare come un treno senza rotaie verso una meta sconosciuta, ignota. Provate a cercare sul Google la parola “Post-human” cliccate sul tasto “immagini” e preparatevi ad una galleria degli orrori. Le foto hanno qualcosa di inquietante, non si sa più dove finisce l’uomo e inizia l’animale. Ovunque è un rimescolamento di pezzi di corpi fusi alla rinfusa, senza un ordine né un’identità. È il trionfo della volontà umana sulla natura del corpo ridotto a un semplice appendiabiti, riflesso del proprio sentire, obsoleto, soggetto a smembramenti anche violenti. Della precisione rinascimentale, simbolo di equilibrio e armonia, rimane solo una distesa di sabbia che nasconde pezzi di umanità sparsi qua e là. 

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Questo approccio a ben guardare non è una cosa nuova, ha radici antiche. All’inizio del XX secolo, un gruppo di artisti capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti invocava l’avvento di un nuovo tipo di uomo, figlio del progresso della scienza e della tecnica, affermando ad esempio: «Noi aspiriamo alla creazione di un tipo non umano». «L’uomo moltiplicato che noi sogniamo, non conoscerà la tragedia della vecchiaia!», e ancora «Con la conoscenza e l’amicizia della materia […] noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili».

Sul finire dello stesso secolo, un altro gruppo di artisti, riuniti sotto l’evocativa etichetta di Post-human dal critico e gallerista americano Jeffrey Deitch in occasione dell’omonima mostra del 1992, sembrava affermare che quel nuovo tipo di uomo fosse ormai giunto.

Nel corso degli anni le scoperte nel campo della genetica, delle biotecnologie e della chirurgia plastica, insieme alle novità dell’informatica, della cibernetica e della realtà virtuale, hanno messo e mettono ancora oggi, in crisi le percezioni del corpo e della natura umana in generale, rendendoli obsoleti rispetto al nuovo contesto ipertecnologico. Un nuovo modello umano si va affacciando sul mondo, un nuovo essere figlio di sé stesso, alla continua ricerca di metodi per realizzare l’illusione di sconfiggere il tempo, l’invecchiamento e la natura stessa del corpo. Un uomo nuovo per cui la natura biologica non costituisce più un limite alle proprie possibilità. In sostanza, un umano oltre l’umano. Un uomo che nega sé stesso. Quale sarà il prossimo passo?

Se è vero che ogni albero si riconosce dai frutti, allora basta dare uno sguardo alla società che ci circonda per capire che le cose forse non vanno proprio come vorremmo e che questo “uomo nuovo” lanciando il guanto della sfida alla vita, alla morte, al destino e a Dio, ci ha resi vittime di una guerra impari. A cosa ci porterà tutto questo? Da dove ripartire? Forse un spunto potremmo prenderlo proprio dalle tele immortali dei nostri grandi artisti rinascimentali: se torniamo a guardare all’umanità come al più grande esempio della potenza creatrice di Dio, forse troveremo anche il coraggio di invertire la rotta verso una vera forma di emancipazione sociale che rimette sul serio la persona al centro e, chi lo sa, magari torneremo a risplendere nelle tele degli artisti perfetti come la “Gioconda”.




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