Santissima Trinità – Anno C – 16 giugno 2019

Saldi nella speranza che Dio è con noi

di fra Vincenzo Ippolito

Noi viviamo in uno stato di grazia, ma dobbiamo custodire questa grazia, nei vasi di creta della nostra esistenza, dobbiamo permettere alla vita di Dio di plasmarci, al suo amore di abitarci, alla sua misericordia di cambiare i nostri criteri di giudizio, alla sua potenza di perdono, di spingerci a contare settanta volte sette, prima di lasciare al rancore di avere su di noi il sopravvento.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (5,1-5)
Andiamo a Dio per mezzo di Cristo, nella carità diffusa in noi dallo Spirito.
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a que¬sta grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

 

Prima di inoltrarsi nel mare aperto del Tempo Ordinario, la liturgia ci dona di concentrare la nostra attenzione, nelle domeniche che seguono la solennità della Pentecoste, prima sul mistero della santissima Trinità e poi sul sacramento dell’Eucaristia, presenza permanente del Signore crocifisso e risorto, nella sua Chiesa. Si tratta di celebrazioni che vogliono ridestare la fede, nel cuore dei credenti. La festa della santissima Trinità, posta, nel ciclo liturgico annuale, dopo il Tempo di Pasqua, ci porta a considerare come il mistero di Dio, uno e trino, si manifesti in pienezza nella Pasqua e sia la sorgente della vita nuova che i fedeli sperimentano ogni giorno.
L’odierna liturgia della Parola ci offre, come Prima Lettura, un brano del libro della Sapienza (cf. 8,22-31). In esso l’autore ispirato lascia la parola alla Sapienza di Dio personificata, che descrive l’opera della creazione, voluta da Dio e realizzata nella storia. Sarà l’apostolo Giovanni, nel prologo al suo Vangelo (cf. Gv 1,1-18) a mostrare che il Verbo è la sapienza del Padre, per Lui tutto è stato creato ed ogni cosa viene mantenuta nell’essere. Dinanzi al grande progetto della creazione, il Salmo 8 ci invita a cantare la bellezza di Dio, che si riflette nelle opere delle sue mani. La Seconda Lettura, invece, tratta dalla Lettera ai Romani (cf. 5,1-5), mostra come l’uomo sia chiamato a partecipare al mistero della vita nuova del Signore risorto, grazia all’amore, effuso nel suo cuore dallo Spirito Santo. Nel Vangelo (cf. Gv 16,12-15), l’apostolo ed evangelista Giovanni ci trasmette le ultime parole di Gesù, nell’ultima cena. Il Maestro, promettendo il suo Spirito, assicura che ogni discorso su Dio ed ogni cammino verso Dio ha senso nella forza del Consolatore, perché è Lui solo a guidare i credenti alla verità tutta intera.
Il nostro Dio ha lasciato nella creazione le sue impronte, perché dalle cose visibili potessimo avere una strada per arrivare a Lui (Prima Lettura). Nella pienezza dei tempi, ci ha donato il suo Figlio, perché, “via nuova e vivente” (Eb 10,20), ci svelasse il suo volto di Padre (Vangelo), donandoci lo Spirito che ci guida a vivere nell’amore che il Risorto riversa in noi (Seconda Lettura). Oggi ci è chiesto non solo di contemplare dall’esterno il mistero di Dio, ma di sentirci parte del mistero che celebriamo, perché il nostro Dio vuol abitare in noi, per costruire sulla terra il suo regno di comunione, di giustizia e di pace.

Tutto abbiamo grazie a Gesù Cristo

Anche questa domenica, come nella solennità della Pentecoste (cf. Rm 8,8-17), la Seconda Lettura attinge dalla Lettera ai Romani, considerata a buon diritto una delle Epistole più importanti dell’Apostolo, sia per lunghezza, come anche per i temi teologici ben sviluppati e argomentati. La nostra pericope è la parte finale della prima sezione della Lettera (cf. Rm 1,16-5,21), nella quale l’Apostolo tratta della giustificazione mediante la fede – non sono le opere che ci rendono graditi a Dio Padre, ma la fede nella potenza di Cristo, che ci ha liberati dal peccato e dalla morte – perché i cristiani che abitano nella capitale dell’Impero comprendano che il primato, nell’esperienza della redenzione, è di Dio che rivela in Gesù Cristo il suo amore redentivo, che ci purifica da ogni nostro peccato. I frutti della giustificazione sono la pace con Dio (cf. Rm 5,1-11) e la grazia di Cristo, che supera la disubbidienza di Adamo e riapre ai credenti la relazione con Dio, che, grazie alla sua Pasqua, oltre che Creatore, è Padre.

Scrive l’Apostolo “giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (v. 1). È la fede che ci salva, il desiderio di affidarsi completamente a Dio, di rimettere nelle sue mani la nostra vita, di trovare accesso al Regno e di vivere alla sua presenza, costruendo la famiglia dei suoi figli. Questo non significa che le opere non abbiano il loro peso, visto che, ben lo insegnerà l’apostolo Giacomo, sono esse che danno concretezza alla scelta di seguire il Risorto, come bando di prova dell’appartenenza a Lui. Paolo, depositario della ricca tradizione giudaica (cf. Fil 3,5-6), deve sradicare nel cuore dell’uomo la presunzione di credere che, con le sole sue forze, può diventare giusto e presentarsi al Padre, rinnovato nel cuore, affrancato nell’intimo dalla colpa del primo uomo. Dire che si è giustificati per la fede significa che le opere della legge, le azioni dell’uomo non piegano Dio, ma rappresentano il segno del nostro incontro con Cristo, che ci ha salvati dal peccato e dalla morte, del desiderio di camminare alla sua presenza, mettendo a frutto il suo amore in noi e di manifestare agli uomini la grazia di aver sperimentato in Cristo la salvezza e la pace. Difatti, scrive sempre Paolo “Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Ef 2,8-10). Se la redenzione non dipende da me, se è puro dono di grazia da parte di Dio, attraverso l’offerta di Cristo, nel mistero della sua Pasqua, io dovrò ricevere questo dono, con umiltà, custodirlo con fedeltà, dispensarlo ai fratelli con generosità. In tal modo, la gratuità sperimentata nell’incontro con Gesù mi porterà, per il dono dello Spirito, a vivere nella gratuità e a dispensare l’amore, che il Consolatore riversa nel mio cuore. Le opere dell’uomo, il suo “fare qualcosa per Dio” viene dopo, come risposta alla sua iniziativa di raggiungerci, in Cristo, e di donare ad ogni uomo la possibilità di partecipare alla sua stessa vita divina. La salvezza e la redenzione, la giustizia e la pace, la vita secondo il Vangelo e l’operosa carità verso gli ultimi non dipendono solamente dall’uomo, ma sono suscitate dallo Spirito nel cuore del credente, che collabora con Dio alla sua gioia e alla trasformazione del mondo in Regno di Cristo Salvatore.

Senza la consapevolezza che la nostra è sempre una risposta, che il dono di grazia ci precede, sempre, da un punto di vista temporale – Dio ci ama per primo – e qualitativo – Dio è amore – non riusciremo a vivere una vita di fede adulta, costruendo tra gli uomini la fraternità dei figli di Dio, che in Cristo riconoscono la sorgente della grazia che ci rende una sola famiglia. Giustificati per la fede cos’altro significa se non vivi nella gratuità che ti è stata usata, contempla il mistero redentivo della Pasqua di Cristo, il cui sangue è il prezzo del nostro riscatto, la cui vita divina ti è stata concessa, senza che tu ne avessi desiderato la ricchezza, sentito l’urgenza, richiesto l’azione, sperimentata la grazia? Dio ci giustifica perché ci ama, ci abilita ai suoi occhi, senza tener conto delle colpe commesse, apre, grazie alla mediazione unica e universale di Cristo, la strada per vivere in Lui e godere dei beni della salvezza, dispensati a piene mani dal costato trafitto del Redentore crocifisso. Se è Gesù che mi rende giusto, se è Lui che apre le porte del regno a me, come un girono, senza nessun merito, al ladrone pentito, crocifisso con Lui, significa che “grande è presso di lui la redenzione”, che Egli è “misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore”, che io non posso piegare Dio ai miei desideri, spingendolo a farmi grazia, per le opere ineccepibili che io compio, obbedendo alla legge. Come poi l’uomo possa credere di obbedire alla legge, senza la grazia di Cristo e considerarsi meritevole della redenzione, per le opere che credere di compiere, senza nessun aiuto divino, appare un mistero, facilmente comprensibile, se scaviamo nel cuore dell’uomo e riconosciamo nella superbia e nella presunzione, nell’egoismo e nell’orgoglio la radice di ogni peccato di autosufficienza religiosa. Non è forse la pretesa di voler fare da sé che impedisce ai nostri rapporti di fiorire, alla grazia matrimoniale di portare frutto in abbondanza, alle amicizie di svilupparsi, secondo la potenza che opera in ciascuno? Paolo mette il dito nella piaga che ciascuno si porta dentro, nella presunzione di credere di poter fare da sé, idee pretestuosa che si manifesta, nei riguardi di Dio, nel non voler accogliere il suo amore, se non “pagandolo”, quindi meritandolo, con le opere ciò che, invece, è sempre e solo, puro dono di grazia; nei riguardi dei fratelli, l’orgogliosa intenzione di bastare a se stessi conduce ciascuno a manifestare la propria somiglianza con Adamo ed Eva, non lasciandosi aiutare, nel bisogno, amare, nella difficoltà, sollevare, nelle cadute. Da questo comprendiamo che l’orgoglio, vissuto nella relazione con Dio e con gli altri, mina alle radici la possibilità dell’incontro e fa precipitare ciascuno nella sterile illusione di essere perfetto e di non dover chiedere mai, per non scalfire l’idea che lo porta continuamente ad indossare una maschera e a recitare un copione, con un notevole dispendio di energie. Giocare in difesa e non in attacco è grande limite che spesso abbiamo, perché solo chi non ha paura delle proprie debolezze permette alla verità, plasmata dall’amore, di scandire la vita.

La redenzione è opera della Trinità santa, sono le Tre divine persone, che vogliono la nostra gioia e realizzano la salvezza per ognuno di noi. Comprendere il primato dell’amore del Dio Trinità, vedere che tutto, nella nostra storia, è segno della sua volontà di raggiungerci, salvarci, riscattarci, donarci la vita vera in pienezza sono il segno che la sequela di Cristo sta portando i suoi frutti, in caso contrario, la nostra fede sarà un vuoto sentimento religioso, che ci porterà a fare delle cose per Dio, senza lasciare che Lui si doni a noi, perché è il dono di se stessi che Egli richiede, non la perfezione di opere, che solo formalmente risultano ineccepibili.

Tutto ci è dato in Cristo

Il frutto della redenzione sperimentata, nella Pasqua di Gesù, è la pace. Scrive l’Apostolo “giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (v. 1). Essere in pace con Dio significa che Gesù ci ha aperto il passaggio al regno eterno, che per la disubbidienza di Adamo ed Eva, era sbarrato, visto che Dio, dopo aver scacciato l’uomo da giardino di Eden, “pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita” (Gen 3,24). È Gesù che abbatte il muro di divisione tra noi ed il Padre, sbaraglia il peccato che dentro di noi impedisce di accogliersi bisognosi di Dio e del suo amore, che spazza ogni barriera e trasforma pesino al colpa, volontariamente scelta, in luogo dove stilla il perdono e si sperimenta la grazia della redenzione. È Gesù Cristo che lì dove regna la morte, vince con la potenza della sua vita ed i lontani divengono i vicini di Dio, per l’effusione del sangue di Cristo, che abbatte le distanze e crea la fraternità.
Se intendiamo bene quanto l’Apostolo scrive, ci renderemo conto di come Egli sta parlando del disegno del Padre, che Cristo rivela e realizza in sé, perché i suoi discepoli, guardando a Lui, lascino allo Spirito, di fare lo stesso e collaborare alla trasformazione del mondo. L’espressione “noi siamo in pace con Dio” indica l’amicizia ritrovata con il Padre, che Gesù Cristo ci ha procurato, con la sua morte – “per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” – perché “nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me” (Gv 14,6), dice Gesù all’apostolo Tommaso, che gli chiede di conoscere la via, per seguirlo. È Gesù che ci rende giusti, perché è Lui la porta, chi passa attraverso di Lui, troverà pascolo (cf. Gv 10,9). Perché, allora, non lo facciamo? Perché presumiamo di avere vita e salvezza, evitando la croce di Gesù e non partecipando alla grazia della sua redenzione? Non è forse Lui la pace, che ci dona pace con il Padre? “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,14-18). Il dono di Dio, in Cristo, è grazia su grazia, una incalcolabile potenza d’amore, una forza dilagante, che ogni umana realtà trasforma, lì dove giunge ed è accolta con fede. È Gesù che ci dona di accedere a questa grazia, grazia di figliolanza, grazia di amore riversato in noi, grazia di comunione con i fratelli, grazia di testimonianza con i lontani, grazia per offrire la propria vita, come ha fatto Gesù. Scrivendo al suo discepolo Tito, Paolo afferma a chiare lettere, mostrando come tutto opera la Trinità santa, il Padre, in Gesù Cristo, nella forza del suo Spirito. “Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” (Tt 3,4-7). E se questo è l’iter della grazia che raggiunge l’uomo e lo salva, percorso identico è quello che è chiamato a fare, per abitare in Dio e sperimentare in abbondanza la vita.

Noi viviamo in uno stato di grazia, spesso senza neppure accorgercene. Dice, infatti, l’Apostolo: “Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a que¬sta grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio” (v. 2). Siamo costituiti in grazia, perché Dio si dona a noi come grazia, amore gratuito che ci accompagna, sostiene, motiva l’impegno nel mondo e placa ogni tempesta. Ma dobbiamo custodire questa grazia, nei vasi di creta della nostra esistenza, dobbiamo permettere alla vita di Dio di plasmarci, al suo amore di abitarci, alla sua misericordia di cambiare i nostri criteri di giudizio, alla sua potenza di perdono, di spingerci a contare settanta volte sette, prima di lasciare al rancore di avere su di noi il sopravvento. La nostra famiglia si trova in grazia, attraverso i sacramenti della fede, quelli vissuti e gli altri che si perpetuano nel tempo – Eucaristia e Penitenza – perché Dio vuole essere il nostro compagno ed amico, nella vita, come desidera accompagnarci al di là della morte, per aprirci il regno della vita. La grazia della presenza di Dio in noi – a livello personale – e tra noi – a livello familiare e comunitario – non si manifesta solo quando le cose vanno bene, ma principalmente nelle difficoltà. La gioia cristiana, infatti, nasce dalla certezza che il discepolo non è mai solo e che può sperimentare sempre la dolce presenza del Signore, bastone e baluardo suo in ogni situazione avversa. Per questo l’Apostolo può dire “ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza” (v. 3-5). Vantarsi nella tribolazione è proprio del discepolo che segue Gesù, come accadde ai fedeli della Macedonia che, “nonostante la lunga prova della tribolazione, la loro grande gioia e la loro estrema povertà si sono tramutate nella ricchezza della loro generosità” (2Cor 8,2) oppure ai cristiani di Tessalonica “diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione” (1Ts 1,6).
Non dobbiamo avere paura delle tribolazioni, perché abbiamo Cristo con noi e, scrive Paolo, “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8,31). Nulla ci può fare del male, se lasciamo alla sua grazia di dilagare in noi, al suo Spirito di porre in noi la sua abitazione, la sua stabile dimora. Non ci sono situazioni limite, come la morte, che il Signore risorto non possa abitare, trasformare, vivificare, con la sua presenza. Dio libera coloro che si fidano di Lui e si abbandonano alla sua grazia, che si rimettono nelle sue mani. Più viviamo abbandonati a Dio, lasciandoci portare dal Soffio del suo Spirito e maggiore è in noi la capacità di consegnarci, di vivere nella pazienza, nel non agitarci, visto che è Dio a difenderci, al momento opportuno, ad intervenire, quando sa che non possiamo più resistere. Vorremmo bruciare le tappe, invece, il Signore ci chiede di essere pazienti, miti ed umili come il suo Figlio, di porgere l’altra guancia e di abbandonare in Dio la propria causa. Si tratta dell’esperienza più difficile per ogni credente, vivere lo scandalo dell’ingiustizia, non rispondere con violenza agli oltraggi subiti, attendere con pazienza, “lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,12-14). Ci è chiesto di credere nella potenza di Dio che ci abita fin dal giorno del nostro battesimo, di non lasciarci vincere dalla disperazione, guardando i nostri problemi, senza sentirci inadeguati, nelle situazioni che avvertiamo contrarie, sapendo che “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,13). Dio è la nostra speranza, la Pasqua di Cristo il segno che non confidiamo invano nella sua potenza, perché Egli non ci lascerà brancolare nel buio, perché “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). E se “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (v. 5) abbiamo ben ragione di vivere nella speranza, sapendo che Dio è con noi, ci sostiene con la sua destra, ci salva con il braccio santo. Solo credendo che “Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce” potremo non soccombere al male. Si chiede l’Apostolo, “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati” (Rm 12,35. 37).

Vivere il mistero della Trinità in noi e tra noi

La Parola di Dio non è un trattato di teologia e sarebbe sbagliato cercare la dottrina sistematica sul mistero del Dio uno e trino. La Scrittura ci narra Dio, mostrandoci come Lui si comporta con l’uomo e come, nell’amicizia con noi, svela la sua essenza e ci rende partecipi della sua vita. Paolo, scrivendo ai Romani, descrive ciò che la Trinità opera per noi, chiedendo di lasciarsi raggiungere dalla sua grazia e di vivere nella fede, nella pazienza e nella speranza. Dio vuole la nostra gioia. Per farlo ci dona la sua presenza. È Lui che opera la comunione e ci rende l’uomo parte della vita dell’altro, se ci lasciamo portare dal suo amore, modellare dalla sua azione, trasformare in segno della sua presenza tra gli uomini.




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