Vita
La congiura del silenzio. Cui prodest?
di don Silvio Longobardi
In questo contesto politico, culturale e sociale in cui la vita nascente non è tutelata, un evento come la marcia per la vita, che si è svolta a Roma sabato 18 maggio, incontra lo sguardo indifferente dei media e anche dei media cattolici ufficiali. Don Silvio: “A chi giova tutto questo? Perché nascondere con imbarazzo una manifestazione che in buona sostanza esprime la coscienza etica del mondo cattolico?”.
Tutti sono pronti a giurare che la solidarietà rappresenta il vero motore della società civile perché riconosce alla persona, specie a quella che si trova nel bisogno, la sua intrinseca dignità. E tutti, ne sono certo, sono pronti ad affermare che una società che non sostiene e non promuove la solidarietà, si candida al fallimento. Si tratta di un principio basilare dell’umana convivenza. Tutti d’accordo. Nessuno escluso.
E tuttavia, proprio la società del nostro tempo, proprio quella che fa della solidarietà la sua bandiera, dimentica che la prima forma di solidarietà è quella che lega la mamma al bambino che porta in grembo. E dimentica che l’impegno per la vita nascente appartiene di diritto a quel più vasto impegno solidale che attraversa ogni ambito della società.
Questa dimenticanza non è una semplice trascuratezza ed è ben più grave della colpevole omissione. Si tratta piuttosto di una precisa e incomprensibile scelta culturale che ormai è diventata legge ed ha assunto il valore di un indiscutibile principio morale. Tutti hanno diritto ad essere sostenuti e aiutati. Tutti ma non il bambino che la mamma porta in grembo. Tutti ma non le mamme che hanno deciso di accogliere la vita e portare a termine la gravidanza.
Al termine dell’anno solare, come da tradizione, il Presidente della Repubblica ha distribuito medaglie al valore civile per mettere in luce quei cittadini impegnati a scrivere pagine di solidarietà. Ovviamente sono state scelte quelle persone che hanno compiuto gesti di particolare eroismo oppure hanno costruito negli anni una stabile forma di impegno solidale. Provate a scorrere l’elenco dei premiati nell’ultima tornata, quella che ha chiuso il 2018. Potete constatare che questo prestigioso riconoscimento è stato dato a persone impegnate nei più differenti ambiti: inclusione sociale, cooperazione internazionale, tutela dei minori, promozione della cultura e della legalità. Tutti meno uno. Non è difficile immaginare quale ambito sia totalmente assente.
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Non si troverà mai un Presidente che premia una donna come Paola Bonzi che da 36 anni svolge un prezioso servizio a favore delle mamme che hanno difficoltà ad accogliere la vita. Il suo curriculum parla chiaro: 20mila bambini nati! Un segnale forte, un segno inequivocabile non solo del vasto impegno ma anche dei volontari coinvolti. Niente da fare. Un Premio dato alla Bonzi o ad uno dei Centri per la Vita che operano in Italia potrebbe apparire come un indiretto sostegno alla causa della vita. Non importa che la legge 194, sì proprio quella che quarant’anni fa ha legittimato l’aborto, affermi a chiare lettere che lo Stato s’impegna a promuovere la maternità. Non importa se tante mamme ringraziano commosse i volontari per la vita per averle aiutate a custodire il bambino. Non importa… c’è una legge non scritta che non solo condanna il bambino ma condanna alla gogna mediatica anche chi si preoccupa di salvaguardare quella che possiamo chiamare la prima e fondamentale alleanza della vita.
In un contesto culturale e politico come questo, la marcia per la vita che si è svolta a Roma sabato 18 maggio, dovrebbe essere salutata come un gesto coraggioso da parte di chi non si arrende alla barbarie. E invece incontra lo sguardo indifferente dei media e, ahimè, anche la sostanziale censura dei media cattolici ufficiali. A chi giova tutto questo? Perché nascondere con imbarazzo una manifestazione che in buona sostanza esprime la coscienza etica del mondo cattolico? Se in questa iniziativa vi sono limiti – e certamente ve ne sono, come in ogni realtà umana – basterebbe evidenziarli con carità, come insegna Papa Francesco che non si stanca di invitare al dialogo con tutti e nel rispetto di tutti. In un’omelia di Pentecoste ha detto parole che dovrebbero essere una buona regola del dialogo ecclesiale: “Quando siamo noi a voler fare la diversità e ci chiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, portiamo la divisione; e quando siamo noi a voler fare l’unità secondo i nostri disegni umani, finiamo per portare l’uniformità, l’omologazione” (19 maggio 2013). Possibile che il dialogo con tutti, anche con i più lontani, diventi chiusura nei confronti di quelli che sono più vicini?
Il silenzio dei media cattolici non è trascuratezza ma una precisa scelta di campo. Un silenzio che sconcerta il popolo per la vita e, senza volerlo, finisce per allentare ulteriormente quell’impegno per la vita nascente che – diciamolo francamente – oggi trova ben poco spazio nella quotidiana vita pastorale delle nostre parrocchie. Non spegniamo le piccole luci, semmai aiutiamole a risplendere con più chiarezza per rischiarare il cammino dell’umanità. È un compito da non trascurare perché in gioco vi è il bene dell’umanità.
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