Quaresima

Cosa dice la Quaresima a noi presbiteri?

di fra Vincenzo Ippolito, ofm

Per evitare il rischio di divenire dei funzionari del sacro, burocrati freddi di un fuoco vivo che, nelle nostre mani, perde di consistenza, a noi per primi è offerto questo tempo favorevole. La Quaresima ci riporta nel deserto, per ritrovare in Cristo la nostra sola ricchezza, lasciandoci condurre, come Lui, dalla Parola del Padre, per addestrare il cuore.

Non è semplice rispondere a questa domanda – cosa dice la Quaresima a noi presbiteri? – ripetermela, mi fa venire in mente le cuffie di Lascia o raddoppia del mitico film omonimo, in cui Totò è il Duca della Forcoletta o anche i film polizieschi di una volta, in cui l’imputato era sottoposto ad un interrogatorio serrato, con una lampada sul volto, quasi a ricordare la luce della propria coscienza. Siamo bravi noi presbiteri a dire a dare consigli su tutto, quando poi siamo noi a dover rispondere alle nostre stesse domande o vestiamo i panni di don Abbondio – un prete anche lui – che, nelle sue letture serali si domandava chi fosse Carneade oppure ci perdiamo nei nostri ragionamenti, come Socrate, che arrivò tardi al simposio in casa di Agatone, perché proprio sulla porta di casa, si fermò a riflettere, lasciandosi portare da uno dei suoi pensieri. Ma poiché, ammonisce il sommo Poeta, “Fatti non foste a viver come bruti”, conviene non divincolarsi, ma tosto risponder a ciò che ci vien chiesto!

Il cammino che la Chiesa ci invita a fare in questo tempo è un itinerario di interiorità, perché è il cuore che deve rinnovarsi, per la potenza dello Spirito Santo e, al tempo stesso, di totalità, perché la conversione deve permeare tutto di noi, dalla testa ai piedi, amava dire don Tonino Bello, “Cenere in testa e acqua sui piedi […]Una strada, apparentemente, poco meno di due metri. Ma, in verità, molto più lunga e faticosa. Perché si tratta di partire dalla propria testa per arrivare ai piedi degli altri. A percorrerla non bastano i quaranta giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo. Occorre tutta una vita, di cui il tempo quaresimale vuole essere la riduzione in scala”.

I primi ad entrare nell’agone spirituale di questo tempo santo, lasciando che lo Spirito lavori nella docilità che gli offriamo, siamo noi presbiteri, chiamati a donare, con gioioso stupore e consapevole responsabilità, la potenza che Dio mette nelle nostre mani. Come essere strumenti di grazia per gli altri, senza goderne noi per primi? “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro” (Lc 6,39-40). Essere come il Maestro: a questo la vocazione presbiterale ci chiama e lo Spirito effuso su di noi il giorno della nostra ordinazione ci ha consacrati nel cuore, per essere la continuazione della presenza salvifica del redentore nella storia. In noi per primi, infatti, il Signore vuole realizzare la sua promessa “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme”(Ez 36,26-27). Ma come Dio vuole cambiare il nostro cuore e, soprattutto, come può farlo con noi, per non rischiare di fare la fine del profeta Giona, annunciare agli altri una conversione, la cui strada noi per primi non vogliamo imboccare?

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Un cammino di interiorità e totalità

Il cuore, nelle pagine della sacra Scrittura, è l’organo della volontà e delle scelte, crogiolo della prova, dove l’uomo viene raffinato al fuoco per scegliere il suo vero bene. Per noi occidentali, abituati da sempre a vedere nel cuore la sede dei sentimenti e degli affetti, in una continua lotta con la mente – chi non ricorda il pensiero di Pascal “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non intende”!  – l’uomo della Scrittura offre la possibilità di esplorare la realtà in un modo diverso, scoprendovi il riflesso della bellezza che il Creatore ha donato alla sua creatura. Per il discepolo di Mosè, restio all’astrazione e pronto a misurare tutto con la capacità dei sensi, la sede dei sentimenti non è il cuore, punto nevralgico intorno a cui ruota tutta la sua persona, ma le viscere e l’uomo, dotato di intelletto e di volontà, non pensa con la mente, che per noi è l’organo della razionalità fredda e calcolatrice, quanto, invece, con il cuore. È l’evidenza dei fatti che lo spinge a questa anatomia umana, per noi così inusuale.

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L’uomo della Scrittura sa per esperienza di essere stato concepito e generato nel ventre della propria madre e l’amore lo riporta al luogo originale di quel dono ricevuto ed accolto. L’amore, la misericordia, in Dio e nell’uomo, è questione di viscere, si ama con le viscere, quasi che, amati, si riceva una nuova possibilità di vita. L’organo che, invece, presiede al discernimento e che conduce alle decisioni è il cuore. Esso indica tutto l’uomo, la sua volontà e coscienza, la sua capacità di scegliere e di decidere tra il bene e il male. È nel cuore, infatti, che ogni creatura accoglie o rifiuta Dio come Signore, definisce la sua vita, determina la sua storia, costruisce il suo futuro, prende una strada o la rifiuta per imboccarne un’altra. Dall’accordo del cuore e delle viscere si nutre la storia della salvezza, dall’incontro tra l’amore viscerale e la volontà cordiale la relazione tra Dio e l’uomo riceve pienezza di vita e di gioia. In questa luce comprendiamo le espressioni dell’Antico Testamento che nutrono il vissuto di fede del popolo d’Israele. Il Dio degli eserciti, Signore dei Signori scruta la mente e saggia il cuore (Sal 17,10), non giudica secondo quanto appare, ma di ciascuno guarda il cuore (1Sam 16,7), conoscendone i segreti (Sal  44,23). Capace di promettere ai figli di Adamo un cuore nuovo ed uno spirito nuovo (Ez 37,26-34), vuol donare al suo popolo un cuore di carne, sul quale scrivere la nuova alleanza (Ger 31,33). E poiché ogni intento del cuore dell’uomo è incline al male fin dall’adolescenza (Gen 8,21), custodisci il tuo cuore – sembra dire il Signore come un padre al suo figlio – perché da esso sgorga la vita (Pro 4,23). L’uomo, però, sceglie risolutamente di rifiutare Dio,  di non rispondere alla sua misericordia, di non obbedire alla sua voce, di non prendere in considerazione la sua promessa di vita. Ecco perché il salmista ammonisce non indurite il vostro cuore come a Merìba (Sal 95,8) e poiché l’unico farmaco in grado di sanare il cuore, difficilmente guaribile (Ger 7,9) è la conversione con tutto il cuore e con tutta l’anima (Tb 13,6), ovvero la circoncisione del cuore ostinato e ribelle (Dt 10,16), Davide prega con totale abbandono crea in me, o Dio, un cuore nuovo (Sal 50,12). 

L’incapacità del cuore dell’uomo a scegliere Dio e la sua volontà rappresenta lo scenario per comprendere la venuta di Gesù. In Lui il Padre trova il cuore che si attende dall’uomo, la sua obbedienza incondizionata, il suo Eccomi filiale, la sua docile risposta d’amore all’amore. Dio si dà un cuore per insegnare all’uomo ad orientare il suo cuore, a collocarlo in Dio, a seminarlo con la sua Parola, a custodirlo perché la zizzania non vi metta radici. In Gesù di Nazaret, Dio prende un cuore d’uomo, accogliendo la possibilità di offrirsi Egli stesso all’uomo come modello  nel vivere l’amicizia con Dio e con i fratelli. Il suo cammino, secondo quanto di Lui ci narrano i Vangeli, è un itinerario di formazione del cuore per orientarlo al Padre, vivendo della sua volontà, nell’offerta della propria vita per la salvezza del mondo. Non è forse questo il senso dei quaranta giorni vissuti da Gesù nel deserto, in un discernimento che lo porta a scegliere sempre e solo il primato del Padre e della sua Parola di vita? E la sua agonia nell’orto del Getsemani non è anch’essa epilogo di una difficile vita dove la volontà divina è accolta, pur nel sudore di sangue, perché il cuore dell’uomo pensi e viva all’unisono quel progetto che il cuore ribelle di Adamo non volle attuare? 

“Rendi il nostro cuore simile al tuo cuore”: è la preghiera che noi presbiteri dobbiamo sempre rivolgere al Signore, in questo tempo santo, perché la grazia ci trasformi in profondità ed interamente prenda possesso della nostra umanità. Noi presbiteri siamo rivestiti di debolezza per imparare ad essere compassionevoli con quanti Dio mette sul nostro cammino. Condividiamo l’itinerario di conversione, conosciamo per esperienza le astuzie del Nemico, cadiamo anche noi sotto i colpi della tentazione, pur senza scoraggiarci, perché è nella debolezza che si manifesta la potenza dell’altissimo, questo ci rende autentici servi di Cristo, umili amministratori dei suoi misteri, collaboratori della gioia dei fratelli, senza mai esserne padroni.

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Il cammino di conversione che annunciamo ai fratelli, siamo chiamati a compierlo in prima persona, perché la predicazione trafigge il cuore degli altri, se, come Pietro, è parola passata al fuoco della Pentecoste. La nostra vita è il luogo di questa disciplina del cuore dove risuona l’imperativo di Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), ovvero orientate al Padre la vita senza paura della morte, del servizio d’amore, del silenzio che scandisce il dono di sé. Ma per comprendere dove giunge il cuore che sceglie sempre il bene è necessario volgere lo sguardo al mistero Pasquale di Gesù. È lì, infatti, che la scelta di amare gli altri fino all’offerta di sé fa rifiorire la vita e dona a noi un cuore nuovo, che possa battere come quello di Dio per sempre. 

Un rinnovato impegno, in vista dell’annuncio

L’impegno di ciascun presbitero, nella Quaresima, è quello di sperimentare la potenza dello Spirito, come Gesù nel deserto. Ogni presbitero, infatti, è chiamato da Dio a vivere in prima persona il cammino che propone ai fratelli, per conoscere la misericordia di cui è dispensatore nel sacramento del perdono, nutrirsi consapevolmente dell’Eucaristia che celebra, adorare l’Ostia che passa per le sue mani e diventa segno vivo del Signore crocifisso e risorto, che rinnova il suo sacrificio, perché il suo amore trasformi il cuore. Ogni presbitero deve lasciarsi consumare dalla Parola che Dio ha messo nelle sue mani, perché è Cristo la sua unica ricchezza, la sua eredità ed il suo calice. “Il sacerdote dev’essere il primo «credente» alla Parola, nella piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono « sue », ma di Colui che lo ha mandato. Di questa Parola egli non è padrone: è servo. Di questa Parola egli non è unico possessore: è debitore nei riguardi del Popolo di Dio. Proprio perché evangelizza e perché possa evangelizzare, il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato (san Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 26). Egli più assimilerà dall’umiltà dei segni sacramentali quanto Dio compie per la nostra salvezza e maggiormente saprà offrirsi umilmente, perché la vita manifesti Cristo, unico salvatore del mondo. Ma il devi per noi non rappresenta una prescrizione moraleggiante, come se ci fosse imposta dall’esterno una legge, che ci soggioga passivamente e da schiavi. Il devi è il risvolto del voglio con tutto me stesso ed il voglio nasce dall’incontro con l’amore increato che in Cristo si è fatto uno di noi e che in noi continua a darsi ad ogni uomo, nella dimensione sacramentale, mai staccata dalla vita. L’esperienza dell’amore di Dio in Cristo ci porta ad essere tra gli uomini suo segno, per poter dire con Paolo “ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (1Tm 1,16).I documenti della Chiesa, dal Concilio ad oggi, sulla vita ed il ministero dei presbiteri ci offrono la ricchezza di una riflessione teologica che attende solo di essere vissuta. È chiara l’identità del presbitero, nelle mutate condizioni dei tempi, ma ciò che risulta difficile è una prassi di identità, ovvero una vita che riveli l’identità personale che il presbitero riceve con l’ordinazione, come altrettanto non semplice è il cammino di formazione che deve accompagnarci perché i sogni della giovinezza, purificati da Dio nella maturità, continuino a guidarci verso il compimento della volontà di Dio su di noi. 

Nella società attuale, che corre nell’ansia spasmodica di dover fare, nel turbinio di un attivismo ad oltranza, nel quale si rischia di perdere il senso ed il fine di ciò che si compie, anche il ministero ecclesiale può valere per quello che produce e per la visibilità mediatica che guadagna. Per evitare il rischio di divenire dei funzionari del sacro, burocrati freddi di un fuoco vivo che, nelle nostre mani, perde di consistenza, a noi per primi è offerto questo tempo favorevole. La Quaresima ci riporta nel deserto, per ritrovare in Cristo la nostra sola ricchezza, lasciandoci condurre, come Lui, dalla Parola del Padre, per addestrare il cuore – addomesticare, diceva la volpe al Piccolo Principe – alla missione, a portare ai fratelli l’annuncio gioioso della risurrezione del Signore. 

 

 

 




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