CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

“Una diagnosi di trisomia 13 ma nostro figlio è nato sano”

25 Marzo 2019

mamma

Oggi per il blog di don Silvio, la tenacia dell’amore, la fede di una madre, il racconto di una storia che sfida il compromesso morale e le convinzioni scientifiche per intonare un canto di lode alla vita. “Emmanuel, mio figlio, sarebbe stato il Dio con me, il Dio con noi e niente avrebbe potuto separarmi da lui, anche se avessi dovuto tenerlo tra le mie braccia solo per pochi attimi”.

Cari amici,

nel giorno in cui la Chiesa celebra l’Annunciazione, quando contempliamo il Figlio di Dio entrare nella condizione umana facendosi embrione nel grembo di Maria, vi propongo una storia in cui la fede ostinata di una coppia di sposi ha permesso a Dio di manifestare le sue meraviglie. Una storia che mette in luce la forza dell’umile fede e oscura l’orgoglio di quella scienza che pensa di sapere tutto. È una vicenda che passa attraverso la dura prova del deserto ma ha una conclusione inaspettata.

Rosaria e Francesco, i protagonisti di questa esperienza, hanno avuto fiducia in Dio anche quando, a giudizio dei medici, non era lecito coltivare alcuna speranza circa la salute del bambino. In realtà, non chiedevano miracoli, a loro bastava avere un amore straordinario per accogliere un figlio che portava nella carne le stigmate della passione. Loro chiedevano soltanto un surplus di amore ma il buon Dio a volte compie miracoli per ravvivare la fede degli umili e sconfessare l’arroganza della ragione.

Ho usato il plurale, parlando sempre della coppia, ma devo riconoscere che la mamma ha avuto un ruolo speciale. È stata lei, prima e più degli altri, ad avere coscienza che quel bambino era suo figlio ed ha lottato per custodire quella scintilla di vita. È un fatto che non mi sorprende perché la vita passa attraverso il cuore e il corpo di una donna. In questa vicenda, tuttavia, la coppia è sempre rimasta unita. La determinazione della mamma ha tracciato la via che ha permesso agli sposi di ritrovarsi in un’unità resa ancora più bella dalla comune disponibilità ad accogliere il bambino. L’amore ha generato la vita. La vita ha rafforzato l’amore.

In un mondo dove tanti si affannano a suonare campane a morto, questa vicenda rappresenta un piccolo squillo di vita che dona a tutti coraggio e forza. Un segno che chiede di non rassegnarci, vinti dalla paura. Ci vogliono far credere che ci sono situazioni in cui la vita di un bambino non ancora nato vale meno di quella di un gattino. Possiamo dunque buttarla nel cesto che raccoglie i rifiuti. Si tratta evidentemente di una menzogna propagandata con abilità. Gli sposi che oggi si raccontano sono invece convinti che la vita di ogni bambino è sacra e come tale l’hanno difesa. Ed hanno vinto. Una storia da leggere.

Don Silvio

 

“Mi chiamo Rosaria, sono sposata con Francesco da quasi 16 anni, siamo genitori di 3 figli meravigliosi. Abitiamo a Giugliano (Na). Amo poco raccontarmi, ma oggi voglio condividere con voi il dolore, la gioia e l’amore che il Signore ci ha donato attraverso il nostro ultimo figlio, Emmanuel, nato il 17 giugno 2018.

La memoria sfoglia le pagine del cuore e si ferma trepidante di fronte a quel mio detto a Dio con tanta fede il 20 ottobre 2017 quando ho scoperto di essere in attesa del terzo bambino. Il Signore non smette mai di stupirci e di sconvolgere le nostre certezze. Non avevamo messo in conto un altro figlio. Il fatto di sentirci più liberi, avendo ormai due ragazzi adolescenti, ci aveva reso egoisti nei confronti della vita stessa.

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La notizia della gravidanza inattesa ed inaspettata ha sconvolto pensieri e abitudini. Tante le paure: l’età innanzitutto, avevo 41 anni, poi c’era la fisiologica paura del parto e il dover ricominciare, la paura di trascurare la famiglia e, soprattutto, quella di non avere più le energie e le capacità per crescere un altro figlio. Ho trascorso una notte insonne fatta di dubbi, incertezze, angosce, ma neanche per un solo istante ho pensato all’aborto. Mi sono affidata totalmente nelle mani di Dio gridando a gran voce il mio Eccomi, pronta ad accogliere e far crescere nel mio grembo il frutto del Suo amore. I figli sono una benedizione del Signore, un dono immenso del suo Amore.

Tutto proseguiva benissimo, nonostante le nausee e la stanchezza tipiche dei primi mesi. I miei figli, mio marito ed io eravamo felici di questa nuova vita che prendeva pian piano spazio in mezzo a noi e insieme cominciavamo a fare mille progetti, ad immaginare il sesso e a scegliere un nome. Come un fulmine a ciel sereno improvvisamente fummo catapultati in un’altra realtà, ad attenderci una prova più grande di noi. Altre e nuove paure si affacciavano nelle nostre vite. Dopo un’ennesima visita di controllo, il ginecologo ci aveva comunicato l’esito dubbio di un esame e ci chiedeva di fare altre indagini, più specifici ed invasivi.

Mi sentivo vicina a Gesù. La fede e la speranza mi avevano dato l’illusione di essere serena e forte al tempo stesso di fronte a ciò che stava accadendo nella mia e nella nostra vita. Niente avrebbe potuto farmi cambiare idea riguardo alla mia gravidanza e alla mia decisione. Ma l’8 gennaio, alle 14.12, ogni certezza crollò nel buio di un’angoscia agghiacciante. Quella giornata ci riservò una notizia drammatica… trisomia 13 (sindrome di Patau) incompatibile con la vita.

In quel momento il mio cuore si spezzò e subito mi chiesi: “Perché proprio a noi?”. Trascorsi l’intero pomeriggio in preghiera davanti al tabernacolo e ai piedi della dolcissima Madonna di Fatima, non mi interessava più sapere la risposta, non aveva più alcuna importanza. Tante volte i disegni del Signore sono incomprensibili e non ci è dato capirli, se non accettarli per fede. Ero certa che Gesù sapeva ciò che stava facendo. D’altra parte, Lui stesso aveva sperimentato un’angoscia così profonda da trasudare sangue prima della sua passione e ha pregato il Padre. Per quanto fosse difficile con tutto il dolore e la paura, ha fatto l’unica cosa che potevo fare: sia fatta non la mia, ma la tua volontà. Mi affidai così anch’io completamente a Gesù, confidai nel suo grande amore, certa che non mi avrebbe mai lasciata in quelle ore che attanagliavano la mia anima.

Emmanuel, mio figlio, sarebbe stato il Dio con me, il Dio con noi e niente avrebbe potuto separarmi da lui, anche se avessi dovuto tenerlo tra le mie braccia solo per pochi attimi. Nel frattempo, mio marito, i medici e la mia famiglia continuavano a convincermi nel sottopormi ad ulteriori esami nonostante il mio continuo dissenso e a cercare di farmi ragionare secondo il loro punto di vista e prendere una decisione.

L’11 gennaio 2018, alle 9.45, ero distesa su un lettino per amore di mio marito il quale non volle ascoltare le mie perplessità tanto da insistere affinché facessi l’amniocentesi. Quell’esame trafisse non la mia pancia ma il mio cuore, mi sentivo tanto in colpa da chiedere perdono al Signore per quello che stavo facendo. Francesco, mio marito, più freddo e razionale in questa situazione, involontariamente mi feriva dicendomi che l’amore più grande che due genitori potevano donare ad un figlio era quello di non metterlo al mondo, sapendo già le sofferenze a cui avremmo dovuto sottoporre lui e noi. Le persone più care e vicine mi dicevano di non essere lucida. Mi accusavano di pensare egoisticamente, invasata solo dalla mia fede. Per non parlare poi di tutte le altre persone che guardando il mio pancione mi dicevano: che bello è maschio o femmina? Ma l’importante è che sia sano… senza sapere che ogni volta il mio cuore di mamma si spezzava.

Andai avanti per giorni fra amniocentesi ed esami di genetica con la paura di perdere mio figlio in grembo e la consapevolezza di partorirlo e perderlo improvvisamente dopo. Non mi sentivo più all’altezza della scelta fatta, poiché la strada che percorrevo diventava sempre più tortuosa e tante erano le cadute da cui molte volte non riuscivo a rialzarmi. Per molti giorni, forse mesi, non uscivo più di casa e non riuscivo neanche più ad alzarmi dal letto. Mi ritrovai a dover combattere contro dolori laceranti, ansia, notti insonni. La forza d’animo e il mio essere sempre positiva avevano dato spazio senza rendermene conto ad uno stato depressivo. Non ho pensato prima di allora che potesse essere così grave soffrirne, invece oggi penso che sia una malattia vera e propria. È una situazione ingestibile, non ti riconosci più, ti autodistruggi anche se non hai voglia di farlo, perché rimani sempre cosciente e lucida che tutto dipende da te solo, ma questo non basta.

Desideravo la mia vita, la mia famiglia, quella di un tempo ancora vicino, non riconoscevo quella donna che ero diventata, desideravo essere la mamma, la moglie, l’amica di una volta, invece continuavo ad isolarmi dagli affetti a me cari, da Antonio e Katy, i miei figli e da mio marito, trascurando i loro bisogni, il loro amore. Scappavo dal mondo rifugiandomi nella preghiera come unica e sola ancora di salvezza che teneva saldo il mio matrimonio e il nostro amore che si fortificava sempre di più (nonostante i nostri sguardi avessero direzioni diverse). Il Signore teneva le nostre mani unite, strette alle sue, guidandoci in questo cammino e facendoci finalmente guardare in un’unica direzione avendo Francesco sposato la mia scelta, quella dell’amore.

Gli esami al feto hanno continuato a destare preoccupazioni ma ormai la ventisettesima settimana era trascorsa ed io, in un certo senso, ero rasserenata perché terminava il periodo per un possibile aborto terapeutico. Quasi ogni giorno scrivo pensieri che labili passano nella mente e che scalfiscono il mio cuore. Le mie lodi, le mie preghiere e le parole sussurrate cuore a cuore con Cristo, rimangono incise nella parte più intima e segreta della mia anima. Attimi eterni, rubati alla giornata, alla quotidianità, che fermano questo scorrere inarrestabile del tempo.

Oggi, però, mio marito ed io sentiamo il dovere di uscire da quelle righe e di annunciare le meraviglie di quel Dio che si china sulle ferite dell’uomo, fascia i cuori spezzati, asciuga le lacrime, arriva ad ognuno di noi in tutti i modi possibili se solo apriamo la porta del nostro cuore.

Spesso il mio pensiero va a quei genitori che scelgono di risolvere un qualsiasi problema con l’aborto. Dio è più grande di ogni problema, di ogni paura. Da quel buio che aveva oscurato e attanagliato le nostre vite è rinata la luce, nostro figlio Emmanuel che ci ha donato vita e speranza nuova.

Nel dolore impariamo a conoscere il Signore e il suo amore incondizionato. Quando rileggiamo la nostra vita e le difficoltà che abbiamo incontrato, quando ci domandiamo come abbiamo fatto ad uscirne fuori, appare chiaramente che senza la grazia di Dio e senza la fede in Lui non avremmo avuto la forza di affrontare il male e di rialzarci più forti di prima.

La gravidanza è stata un intreccio di sofferenza e di gioia. Abbiamo resistito alle sirene che presentavano l’aborto come l’unica soluzione, abbiamo pregato e consegnato a Dio tutte le paure che possono attraversare il cuore di una mamma e di un papà. Tante persone ci hanno sostenuto con la loro preghiera e… abbiamo sperimentato che nulla è impossibile a Dio. Contro ogni evidenza diagnostica riscontrata lungo tutto il tempo della gestazione, nostro figlio è nato sano, non aveva la trisomia di cui parlavano i medici, non c’era alcuna alterazione genetica. Emmanuel un bimbo pieno di vita che testimonia la fedeltà di un Dio che nella prova ci ha portato in braccio. Quando la fede vince, vince anche la vita”.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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1 risposta su ““Una diagnosi di trisomia 13 ma nostro figlio è nato sano””

“…ero distesa su un lettino per amore di mio marito il quale non volle ascoltare le mie perplessità tanto da insistere affinché facessi l’amniocentesi. Quell’esame trafisse non la mia pancia ma il mio cuore, mi sentivo tanto in colpa da chiedere perdono al Signore per quello che stavo facendo”.

Tanti pensieri mi travolgono dinanzi a questa scena, che mi teletrasporta nell’orto degli ulivi, ma da medico voglio tentare di dire una cosa con lucidità: gli operatori sanitari che procedono ad esami invasivi con queste premesse, se ne hanno anche solo un minimo sentire, sono degli scellerati che meriterebbero la radiazione dall’albo.

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