Turpiloqui Turpiloqui in tv? Attenzione, non sono solo parolacce! Autore articolo Di PUNTO FAMIGLIA Data dell'articolo 20 Novembre 2018 Nessun commento su Turpiloqui in tv? Attenzione, non sono solo parolacce! di Gianni Mussini Insulti, volgarità, allusioni oscene sono all’ordine del giorno in televisione. Cosa si nasconde dietro il bisogno smodato di usare scurrilità più sfrenate? Flora Gualdani, l’ostetrica aretina fondatrice di Casa Betlemme per la formazione, la preghiera e l’accoglienza di ragazze madri, ripete spesso che «Dio non ci ha dato le ali ma i genitali». Alla larga dunque da ogni disincarnato angelismo, tanto più che lo specifico del cristianesimo è proprio in quel Dio che si fa uomo in Cristo, per poi perennemente precipitare benefico sul mondo con il suo Spirito Santo che è amore. Non per caso Flora è strenua sostenitrice della «Teologia del corpo» promossa da san Giovanni Paolo II. Corpo, cioè carne, con tutto ciò che ne consegue. Da questo punto di vista non c’è aspetto della corporeità che sia estraneo al disegno salvifico di Dio: dai complementari umori frutto dell’unione di due sposi, e possibilità di nuova vita, alla cacca con cui il nostro organismo si libera delle proprie impurità. E così via. Tutto santo, tutto bello, ancorché qualche volta imbarazzante e persino umiliante. Così come le parole che pronunciano questo «tutto», e che non sono perciò parolacce, tanto più che in qualche caso possono servire a rappresentare icasticamente la realtà. Ecco Dante: «Vidi un col capo sì di merda lordo, / che non parea s’era laico o cherco», così sporco da rendere impossibile il suo riconoscimento (essendo coperta di escrementi l’eventuale rasura tonda del cherco, cioè del chierico); e ancora le «unghie merdose», e poi la puttana Taide sino al celebre verso del diavolo che «avea del cul fatto trombetta». Leggi anche: Pornografia: quando la gloria del corpo è smontata in tanti pezzetti Certo nel caso di Dante le parolacce appartengono al registro basso richiesto dallo stile «comico» che caratterizza soprattutto la prima cantica della Commedia, vale a dire l’Inferno. Ma esempi del genere si trovano in molti testi importanti della letteratura italiana ed europea, dal Decameron boccaccesco sino al Chaucer dei Canterbury Tales o al Pantagruel di Rabelais, considerato dal critico formalista russo Bachtin come esempio sommo di quel rovesciamento parodico della realtà connesso alla dimensione conoscitiva del carnevale, che mette in luce la verità nascosta e profonda delle cose. Parolacce molto serie, dunque. Del resto non ne era immune lo stesso san Francesco che, stando ai Fioretti, così si rivolse al demonio tentatore: «Apri la bocca, mo’ vi ti caco». E una parolaccia compare anche nel primo documento in volgare italiano, con intenzione artistica, che si trova su una parete della basilica di san Clemente a Roma. Qui è riprodotto in una sorta di ‘fumetto’ un episodio della Passione dello stesso san Clemente, in cui il nobile Sisinnio ordina ai suoi servi di trascinarlo in prigione, ma il Santo si libera prodigiosamente e i due persecutori – senza avvedersene – finiscono in realtà per trascinare una pesante colonna. Ecco di seguito il testo del fumetto (ma su internet se ne possono anche vedere facilmente le figure). Dice Sisinnio ai lavoranti, e non c’è bisogno di tradurre: «Fili de le pute, traite». E uno di questi a un compagno: «Albertel, trai». Il quale rivolto a un terzo compagno: «Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!» (Mettiti dietro di lui con il palo, Carboncello). Sino alla conclusione del Santo, che latinamente chiosa: «Duritiam cordis vestris, saxa traere meruistis», cioè a causa della durezza del loro cuore hanno meritato di trascinare sassi. Anche in questo caso la parolaccia è funzionale alla rappresentazione della realtà, senza falsi moralismi. Si potrebbero fare molti altri esempi ma, se volete un consiglio, fate passare le Laude di Jacopone da Todi: straordinario documento in cui ogni parola – anche le più terribili – è spesa per dire il furente amore di Jacopone per Cristo e il suo Vangelo. Insomma, ce ne sarebbe abbastanza per fare un Elogio del turpiloquio, come recita un libro di Romolo Giovanni Capuano, che intende mettere in luce gli aspetti liberanti persino politicamente delle parolacce (mi esimo da riferimenti all’attualità italiana). Ma è una tentazione da respingere. Eccettuati i casi ‘artistici’ o comunque motivati da un’esigenza profonda, il turpiloquio è infatti spesso, quasi sempre, contrassegno di volgarità intellettuale e di povertà spirituale. In troppi film e spettacoli comici, o presunti tali, si assiste all’inutile ostentazione di una volgarità fine a se stessa, tanto che per far ridere sembra necessario il ricorso alla parolaccia, quando non a grevi doppi sensi e all’ostentazione della fisiologia umana. E così un pubblico sempre più infantile è trattato sempre più infantilmente. La situazione si è aggravata con il venir meno del sistema di regole artistiche e morali, tante volte indubbiamente ipocrite ma comunque disciplinanti, in esistenza prima del famoso Sessantotto. Da allora, il giusto sentimento di una maggiore libertà e autonomia ha infatti dato la stura anche a manifestazioni di gratuita trivialità, per esempio qui in Italia nel cinema con il filone dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, e persino nel linguaggio comunemente usato. Notava il filologo progressista Cesare Segre che la tendenza ad abbandonarsi al turpiloquio è ormai straripante e non incontra ostacoli, forse per evitare l’infamante accusa di bacchettoneria. Eppure, dice Segre, «si dovrebbe invece formulare una condanna esclusivamente estetica… Pensiamo all’uso di punteggiare qualunque discorso con invocazioni al fallo maschile, naturalmente nel registro più basso, che inizia con la c. Un marziano giunto tra noi penserebbe che il fallo sia la nostra divinità, tanto ripetutamente viene nominato dai parlanti»; tanto più che – continua Segre – «la celebrazione del fallo viene poi alternata con quella dell’organo femminile, o con allusioni ad atti sessuali più o meno riprovati, con auguri agli avversari di subire trattamenti sessuali sgradevoli, e così via». Non si potrebbe dire meglio l’impoverimento che in questo modo subisce il linguaggio. Ma se il linguaggio si impoverisce, ne è ferito gravemente anche lo spirito perché noi siamo quello che diciamo. In questa realtà in cui, secondo lo scrittore Antonio Scurati, «l’osceno ha sostituito il tragico», c’è però un’altra implicazione del diffondersi banalizzante delle parolacce: esse si desemantizzano, non vogliono più dire niente. Proprio come la parola dalla doppia Z, o come il termine casino, che ormai non allude più al bordello di dantesca memoria. Ne deriva insomma un impoverimento del linguaggio, dove persino rischiano di mancare le parolacce che pure in certi casi (Dante docet) sarebbero indispensabili. Aleggia sempre lo spettro della neolingua orwelliana, una lingua incapace di esprimere sfumature e sentimenti perché questi sarebbero pur sempre espressione di libertà. In questa omologazione in cui è comunque vietato vietare alcunché, le uniche norme vincolanti sono quelle della political correctness: guai se ti scappa un negro per un nero, ma via libera alle scurrilità più sfrenate, quando non ai veri e propri insulti (basti guardare alla normale conversazione politica dei nostri giorni). Leggi anche: Pornografia e devianza sessuale: la connessione invisibile Non sono favorevole al ripristino della censura, ma certo – guardando qualche film degli anni Cinquanta – mi intenerisco a vedere come i comici di allora (un nome su tutti: Alberto Sordi) arrivassero più volte a sfiorare la volgarità esplicita, venendone però frenati da regole allora ferree. Dobbiamo però ringraziare quel moralismo pudibondo perché quei film, anche i più facili e popolari, si mantenevano a un livello di stile e dignità enormemente superiore a quanto sarebbe avvenuto successivamente. Una posizione passatista la mia? Sentite che cosa diceva il più rivoluzionario dei rivoluzionari sovietici, Lev Trotsky: «La trivialità del linguaggio è un’eredità dello schiavismo, dell’umiliazione, del disprezzo per la dignità umana, quella degli altri e la propria»; e addirittura essa «è per lo spirito ciò che per il corpo sono i pidocchi: un veicolo d’infezione». Sì, un veicolo d’infezione, perché se la lingua è specchio dell’anima e, in un certo senso, forma della nostra coscienza, è evidente che una corruzione di questa forma non può non penetrare anche nel fondo dei cuori. Attenzione, dunque, non sono solo parolacce! Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia Cari lettori di Punto Famiglia, stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11). CONTINUA A LEGGERE Tag turpiloquio, tv, volgarità ANNUNCIO Lascia un commento Annulla rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy. Ho letto e accettato la Privacy Policy * Ti potrebbe interessare: “Noi, portate in pellegrinaggio dai santi Martin”: quattro suore si raccontano “Volevo essere pura, ma non ci riuscivo per insicurezza. Poi accadde qualcosa…” Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati: ecco le date della loro canonizzazione Causa di canonizzazione per Carlo Casini? Per Paola Binetti sarebbe segno di speranza “Papà per scelta”: quando il sentimentalismo non lascia posto a un dibattito vero Il compleanno di vostro figlio, una tappa del viaggio della vita Chi è causa del suo mal pianga se stesso? 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