Famiglia
Otto, come i fratelli di casa mia
di Gianni Mussini
Una casa dalle stanze enormi, il cortile, la legnaia e la cantina, dove ai tempi della guerra ci si rifugiava per sfuggire alle bombe. Il racconto di un’infanzia dove si poteva barare nei giochi, ma guai a sgarrare nella vita.
Allora non me ne rendevo conto ma nella Vigevano rampante del boom, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, pur abitando in pieno centro e anzi in uno dei palazzi più signorili della città, noi fratelli Mussini avevamo il privilegio di vivere come degli apache, non troppo lontani da quello stato di natura celebrato da poeti e filosofi.
Una casa dalle stanze enormi e tutte comunicanti tra di loro, dove si poteva correre, scivolare, saltare, giocare a basket (lo stipite della porta come canestro; ma agli stipiti ci si poteva anche aggrappare per evoluzioni acrobatiche). Un gran cortile con i ciottoli del Ticino che, con i loro diversi colori, disegnavano – secondo le necessità – un campo di calcio oppure di hockey su… sasso; sino a un’improbabile ma non impraticabile pista ciclistica. La legnaia, con le montagne di carbone coke e antracite (luccicava, quest’ultimo, come una cascata di diamanti neri) e soprattutto un bel po’ di ciocchi per la stufa, oltre a innumerevoli pezzi di legno più lunghi e sottili, buoni anch’essi per la stufa ma ancor più per l’hockey o per farne spade e mazze finemente lavorate da sperimentare sugli stinchi di qualche fratello. La cantina dove, ci dicevano non senza pathos, ai tempi della guerra ci si rifugiava per scampare alle bombe; in realtà, le poche volte che ci sono andato mi colpiva soprattutto un odore pungente di polvere e pipì di topo. Poi il solaio: pieno di oggetti perduti che sarebbero piaciuti a Guido Gozzano, e anche quello abitato da ratti, celava però soprattutto il fascino di una certa porticina che conduceva per il tetto rosso all’azzurro del cielo, proprio sul precipizio di fianco alle statue di Pitagora, Cicerone, Dante e Newton, che appena dietro il timpano ornano ancor oggi la facciata di Palazzo Saporiti in Via Cairoli 22. Dalla strada si possono notare anche le grandi semicolonne in granito rosa di Baveno, che slanciano solennemente in su sino a reggere il cornicione con quella sua non dimenticabile scritta: «Nel sapere e nella virtù la felicità».
Dalla parte opposta il grande spazio del giardino, cui si accedeva per un corridoio aperto sul quale davano alcune stanze vuote e senza porta (rivedendo qualche tempo fa il Piccolo mondo antico fogazzariano nella versione filmica di Mario Soldati, ho ritrovato quello stesso clima assorto e silenzioso). Nel giardino il lungo filare di vite americana, sino al pergolato che copriva l’affaccio al naviglio. Ma dalle due parti del filare, fiori (soprattutto ortensie e rose) e frutti assortiti; nel quadrante di sinistra invece il pollaio, la serra, il pozzo con le rane e il rospo, gli orti, soprattutto il campo coltivato a fragole (l’arrivo repentino – a primavera matura – dell’acqua pompata dal naviglio nei canaletti intorno alle porche di terra ben sistemate evoca ancora oggi in me, che in quei canaletti ci sguazzavo a piedi nudi, sensazioni proustiane); più oltre il giardino si slargava a T, dando a destra verso il Corso Pavia, a sinistra verso lo stradone coperto che dal castello conduce alla Rocca Vecchia: e per ciascuno dei due bracci un sentiero costeggiato da una siepe che in primavera profumava di biancospino, anche se non sono sicuro lo fosse.
Roba da apache appunto. Mentre tutt’intorno tutti si davano freneticamente da fare per produrre scarpe e denari in quell’epos di colla e fatica che Lucio Mastronardi, l’autore del Maestro di Vigevano, ha fissato magicamente nei suoi splendori e nelle sue miserie, noi invece su ad arrampicarci sopra il tetto dietro gli antennisti di Sibelli (che rimava strepitosamente con Radiomarelli) solo per il gusto di vedere, conoscere, toccare, godere il nunc della vita.
Avevamo il bagno in casa, e questo non era propriamente da selvaggi. Ma in cortile, esattamente in un sottoscala, come nel ragazzo della via Gluck c’era il gabinetto comune degli inquilini, dove ognuno volta per volta portava il pitale con il proprio tesoretto ben custodito. Non c’era scopino, e io ricordo l’ammirazione che provavo per quella turca vigorosamente striata di marrone a differenza dell’insipido e troppo lindo WC di casa mia. Nell’androne del gabinetto c’era la scala che andava al mezzanino. Qui da un lato si arrivava alle due camere da letto della famiglia della Luigina e del Giovannino, rispettivamente la portinaia del palazzo e il camparo d’acque dei marchesi: li ricordo mentre tiravano su il prete, quella specie di doppia slitta che custodiva un braciere buono per scaldare il letto. Sotto Natale il Giovannino, gli stivaloni lustri ai piedi, ci portava in Lambretta dalla Sforzesca il muschio per il presepe; però quello che faceva lui rimaneva imbattibile: un capolavoro di natura e arte con tanto di ciocchi e lumini elettrici posizionati all’interno delle casine di cartapesta.
Sullo stesso pianerottolo, sempre al mezzanino, l’altro appartamento era quello delle signorine Nosetti. Eterne ottantenni, vivevano insieme al padre centenario, reduce arzillo dell’infausta battaglia di Adua (1896), che ogni tanto ricordava. Dalla finestra, era il nostro primo tifoso quando giocavamo a calcio in cortile.
Di fronte, al piano terra, c’era Pagani, l’amministratore per conto dei marchesi che aveva fatto la Grande Guerra da capitano sull’Adamello, e raccontava con voce roca straordinarie avventure di austriaci infilzati con la baionetta in gallerie scavate sotto la neve del ghiacciaio. Poi c’erano le Ronchetti, i Besozzi, la Mariangela, i Greco, e al pian terreno il Siviero mago dei pellami; quando non capitava l’ambulante che sotto il portico, davanti alla pompa dell’acqua, si metteva a scardassare la lana dei nostri materassi.
Il palazzo era insomma tutta un’animazione di cose e persone. C’erano anche passaggi segreti e finestre che si aprivano su luoghi coperti, come lo scalone di granito che portava a casa mia e allo studio dell’«On. Avv. Guido Mussini», secondo quanto si leggeva su una targhetta appena prima dello scalone medesimo (un dito indice faceva il suo mestiere indicando appunto quella direzione). Qui un altro mondo ancora, con gli umili che, a corto di soldi, portavano riso e uova al papà in cambio di qualche consulto. E poi l’ottimo Zaccone, naturaliter democristiano, che dopo la morte del papà ne avrebbe rilevato lo studio. E l’altro avvocato, Mazzini, provato dalla vita ma proprio per questo con un sacco di storie e avventure da raccontare. Infine le segretarie, la Carla squillante che sposerà Zaccone, e l’Elvira che non sposerà nessuno forse anche perché la sua vera famiglia eravamo noi. Ma tra le due ci fu la Renza di San Martino Siccomario: con la madre a casa da seguire e curare, dovette aspettare un bel po’ per far sbocciare – ormai quasi anziana – la sua trattenuta vocazione di suora sacramentina.
Cronologicamente i Mussini sono divisi in due categorie. I primi quattro, Lucilla Gino Donatella e Livia, nati tra il ’43 e il ’47; i secondi quattro, Gianni Antonio Mario e Guido, nati tra il ’51 e il ’58. Avevo dunque il naturale privilegio di comandare, come più anziano dei più giovani, una vera Banda dei Quattro pronta a tutto: nelle feste dei grandi, qualcuno di noi non mancava di appollaiarsi sugli armadi più alti per sparare proiettili con la cerbottana; trattamento analogo veniva praticato ai danni di chi avesse la ventura di passare in via Cairoli sotto le nostre finestre a balconcino, specialmente se si trattava di “pelati”, calvi, ai quali non di rado veniva anche fornito un bello spruzzo d’acqua sulla testa glabra. Ripeto: roba da apache. E una volta la mamma dovette anche pagare una multa.
Il nostro genio erano i giochi, lo ricordava recentemente – poco prima di morire – la Renza, cioè Suor Maria Lorenza. Una volta era venuto il prefetto con suo figlio, immediatamente requisito dalla nostra banda. Dopo un’ora il prefetto doveva ripartire ma il figlio non voleva saperne: si stava divertendo come mai in vita sua. Se non ricordo male, poverino, aveva i pantaloni al ginocchio, all’inglese.
Ma i giochi, dicevo. Oltre al canonico football, con cui non di rado mandavamo in frantumi i vetri della povera Luigina, e a tutti gli altri già ricordati, ne inventavamo di portentosi. Strascinandoci per terra, disputavamo in soggiorno avventurose partite di pallanuoto all’asciutto oppure, più semplicemente, si cercava di far gol tirando con le mani un pallone di carta avvoltolato nello scotch verso una porta costituita da un breve “ponte” che si apriva nel lungo armadio basso di radica. Soprattutto, molto prima che in Italia arrivasse il subbuteo, da noi ci fu il Pulciocalcio, che utilizzava come pedine delle fiches da roulette un po’ più spesse del normale su cui venivano incollate figurine di latta; la pallina di mollica di pane (più tardi sostituita con sferule di alga trovate in Toscana, nel golfo di Baratti), ne sortivano epicissime partite in cui ogni mezzo era valido per vincere, mica come quel fesso di De Coubertin… Idem nel Dadocalcio, altra invenzione che simulava lo sport nazionale, compravendita giocatori compresa. D’estate, nel rispetto dei calendari sportivi, c’erano invece corse ciclistiche a dadi (o a carte), che tenevano conto delle attitudini – salita, cronometro, volata – dei vari Gimondi, Bitossi, Anquetil, e naturalmente prevedevano accordi anche truffaldini con questo o quell’altro fratello. Ancora una volta: al diavolo De Coubertin! Perché gli apache di via Cairoli 22, pur figli di un «gran borghese» che fece «un’enorme impressione» al giovane Virginio Rognoni (il futuro ministro così ne parlò nel 1994, alla commemorazione per i cent’anni dalla nascita), hanno avuto la gran fortuna di crescere senza un’educazione borghese nel senso delle forme e delle buone maniere, tanto meno un’educazione politically-correct. Si poteva barare nei giochi, ma guai a sgarrare nella vita; si poteva e anzi si doveva prendere in giro chiunque, anche ferocemente, ma guai a considerarlo meno che una persona. Forse c’entrava quell’impasto naturale di cattolicesimo e socialismo che veniva dai nonni materni (tutti hanno un nonno socialista, scrisse in un verso vero e bello il poeta Luciano Erba) e che li portò, come seppi proprio da mia madre poco prima che se ne andasse in Cielo, ad aiutare durante la guerra la famiglia del mite dottor Rudich, un ebreo che abitava in quella villa Liberty all’angolo tra via Cairoli e via Rocca Vecchia (a sette anni mi innamorai perdutamente e senza speranza della sua incantevole figlia tredicenne).
In questa carità senza affettazioni e smancerie, la nostra casa era aperta a tutti, persino alla Boerla, la prostituta storica della città che ormai – dopo l’uso – era stata abbandonata da tutti e, vecchissima, profumava di selvatico come una lepre: c’era sempre per lei un piatto di minestra (che poi veniva accuratamente disinfettato). E poi c’erano anche molti gatti e persino un cane, di solito rifugiati politici su speciale raccomandazione di mia sorella Livia.
Quando è morto il papà (dicembre 1957), l’ultimo nato Guidino era nella pancia della mamma, mentre Mariolino aveva due anni e mezzo. Mentre il primo, dal carattere sensibile e un po’ scontroso (di qui il suo vivo senso dell’humour), seppe da subito di non poter contare sul papà; il secondo, dal carattere invece aperto e gioioso (di qui il suo minore senso dell’humour), dovette accorgersi presto che c’era stato un tempo edenico in cui lui aveva pur vissuto con quel simpatico signore dalla barbetta professorale che vedeva nella fotografia in sala da pranzo e che tutti chiamavano papà. Naturalmente lasciamo in pace la buonanima del dottor Freud, uno che se la tira tantissimo senza prenderci mica tanto; ma certo questo fatto non è estraneo alla mitizzazione di quell’età, fiabesca più che favolosa, da parte di Mario, che infatti a un certo punto della sua vita ha iniziato a raccogliere testimonianze incredibili di quegli anni, persino una vecchia registrazione su filo che, riversata prima su cassetta e poi su cd, permette ora di ascoltare la voce del papà che lo saluta estasiato pochi momenti dopo la nascita («Guarda, apre già gli occhi!»). Non sono cose che capitano tutti i giorni.
Gli altri due della Banda dei Quattro eravamo io e Antonio. Nei giochi di squadra le coppie erano fisse: il primo e l’ultimo (Gianni e Guido), contro i due mezzani. Capitava che facessi pesare anche in modo intimidatorio la mia prestanza su Antonio, di cui ero geloso poiché, scrisse una volta il papà alla mamma, alla sua nascita mi ero sentito «detronizzato»; Antonio evidentemente non la prendeva bene, anche perché in qualche caso l’intimidazione si trasformava in perfide sevizie. E così reagiva stizzito: di qui il soprannome di Nervino e poi, per analogia con la città norvegese che conoscevamo attraverso la «Tombola dei cinque continenti», Narvik. Dal canto suo, Guidino sgattaiolava svelto in ogni prova, mettendo in difficoltà Mario che sui dieci anni si avviava a diventare un poco agile «bestione», come affettuosamente lo chiamava la mamma. Per la sua mole, l’antifrastico Mariolino venne soprannominato Giambon (prosciutto) dall’amico Pierattilio Vella: in effetti – come notò una volta strabiliato lo zio Riccardo – era capace di mangiare due piattoni di minestra, una bistecca con contorno, la frutta, per poi scappare in cucina a farsi una tazzona di latte e cacao dentro cui pucciare il pane. Sui dieci anni era davvero più largo che alto, ma poi con lo sviluppo si allungò sino a 196 centimetri e si snellì sino a diventare un gran bel giocatore di basket (arrivò alla serie A). Quando poi c’inventammo di aprire il campionato di Dadocalcio alle sponsorizzazioni, per mio insindacabile giudizio la squadra di Mario si chiamò dapprima Giambräu come una birra e poi Giambarilla, da cui il soprannome Barilla con cui ancora oggi chiamiamo il fratellone.
Quanto ai più anziani, la prima (Lucilla) era detta la Marchesa perché nata – a differenza degli altri – non in casa ma in una clinica della signorile Milano, e poi anche per una sua superiore sprezzatura e schizzinosità: se uno si sedeva sul bordo del suo letto, lei era capace di cambiarne le lenzuola (e la Banda dei Quattro gliela faceva pagare mettendole lucertole e lumache proprio tra quei lini immacolati). Gino invece, buono come il pane, aveva lo sguardo angelico di certe figure botticelliane (da cui il soprannome appunto di Botticelli, che inizialmente alludeva però anche a un accenno di pancetta dalla forma di piccola botte); primogenito, ha sempre sentito il dovere, dopo la morte del papà, di garantire la stabilità della casa: per questo finirà per non sposarsi, aiutare un po’ tutti e vivere con la mamma. Donatella era la Mancina silenziosa, come la chiamava lo zio Ugo, e in effetti tra gli otto si distingueva per il carattere riservato e taciturno, che non le impediva però di uscire di tanto in tanto con micidiali battute (pronunciate a voce bassa ma inesorabile) ai danni degli altri sette, specialmente la Marchesa. C’era poi la Vispa Teresa, cioè Livia: dal carattere aperto e giovialissimo, con un innato talento teatrale, era una cascata di allegria che si sprigionava per tutta la casa.
Naturalmente guai a pensare di essere stati una famiglia modello: queste famiglie esistono solo nella cattiva letteratura e nei film di Walt Disney. È ovvio che, così in tanti e per di più precocemente privati del papà, si generassero dinamiche non sempre idilliache, anche perché vivere nella società opulenta del boom senza essere opulenti, e vivere da borghesi senza essere borghesi, generava qualche fragilità, per esempio una certa inattitudine alla lotta mescolata a un complesso che era insieme di superiorità e di inferiorità. Il nostro piccolo mondo ci bastava, e bastava alla mamma (che pagherà il suo debito con il dottor Freud molti anni dopo quando – sistemati tutti i figli e costretta a traslocare dalla vecchia casa – andrà incontro al suo bravo esaurimento, superato comunque grazie a quella sua gioia di vivere che non l’ha mai abbandonata).
La cosa importante era un’altra: un senso di appartenenza alla vita, alla verità delle cose, che ha sempre portato tutti noi a non serbare il minimo rancore per torti che si ritenesse di avere subito; ogni questione si risolveva al volo, magari con una parolaccia liberatoria subito dimenticata da destinatario e mittente: senza saperlo, mettevamo in pratica quello che il formalista russo Bachtin dice del carnevale nel suo aspetto catartico. Allo stesso modo, è sempre mancata tra di noi quell’odiosa contabilità di dare e avere così diffusa tra i parenti serpenti: non parlo solo di soldi ma di quell’avarizia morale che pesa e non dimentica le visite effettuate e ricevute, l’importo dei regali, la cordialità o la presunta freddezza di un saluto.
Invece, anche e soprattutto in famiglia, la carità deve essere quella di cui parla san Paolo ai Corinzi: paziente, benigna, disinteressata; e mai invidiosa, vanagloriosa, offensiva. Una carità che «non tiene conto del male ricevuto» e perciò «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Era forse il passo scritturale più amato da mia madre, e credo che – senza accorgercene, con naturalezza – tutti e otto, ciascuno con i suoi difetti, ne siamo stati felicemente contagiati.
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