Da un sogno ad un segno

intervista di Luca Memoli

Mons. Giancarlo Bregantini è un eccezionale testimone di pace del nostro tempo. Attuale vescovo della diocesi di Campobasso è stato alla guida della chiesa di Locri-Gerace. Con il suo esempio e le sue parole ha favorito un clima di riconciliazione in una terra martoriata dalla faida e dell’odio.

La strage di Duisburg ha radici remote ma si alimenta di una cultura, quella del clan, che spesso trova proprio nei legami familiari le sue più profonde radici. La famiglia dunque come luogo che tramanda l’odio e che mantiene vivi i conflitti?

Il rischio c’è perché la famiglia in Calabria ha un valore grandissimo ma si trova sempre ad un bivio. La scuola, la parrocchia, la comunità, le istituzioni devono educare questi figli a non scegliere la via del clan ma la via della comunità. Dobbiamo trasformare la famiglia in comunità, purificandola senza nulla togliere ai valori che ha, ma evitando che prenda una strada non buona. Il rischio che diventi clan c’è! Anche per la mancanza esterna dei sostegni economici, la fragilità di fronte ad un economia che non dà risposte vere, al relativismo che diventa fragilità psicologica e filosofica.

Nei giorni segnati dalla tragedia lei ha invitato le donne e le madri di chi vive in prima persona questo lacerante conflitto ad essere “educatrici di perdono, di riconciliazione e di pace”. È dalle donne che riparte la speranza della pace?

Così è avvenuto sia nel bene che nel male. In mille segni noi abbiamo i riscontri che là dove la donna ha aperto il cuore al perdono, anche la famiglia lo ha fatto e di conseguenza il paese. Dove non c’è la pace c’è una donna protagonista delle ostilità, della diffidenza, della contrapposizione, addirittura della faida che diventa orgoglio sterile. Bisogna dire che non è soltanto questione di cuore, ma anche questione di interessi. La faida decide chi deve comandare in un paese, e chi comanda in un paese come San Luca o in altri paesi dell’Aspromonte comanda tutte una serie di affari. Si mescola l’arcaico con il moderno, una tensione diretta e una indiretta.

Il 23 agosto il giorno del funerale, ha raccolto i primi segnali positivi che sembrano segnare il declino di questa orribile faida. La mamma di Francesco, il più piccolo dei sei uccisi, ha espresso parole di perdono e di pace. Un atto solitario di eroismo o il segno concreto di un percorso interiore che sta coinvolgendo l’intera comunità?

E’ il secondo caso. Fin ad ora è eroico perché è stato un atto, non solitario ma di primizia. Ma la primizia anticipa qualche cosa di più grande per tutti i frutti dell’albero che adagio adagio stanno maturando. È questo il concetto con cui noi guardiamo tutta la locride. Non con la logica dell’elite o con la logica del privilegio ma con quella della primizia. La mamma di Francesco è stata eroica, è stata coraggiosa, ha detto delle cose che mai avevamo sentito, si è messa l’abito bianco ai funerali, la sorella organista ha suonato ai fuenerali del fratello dello zio, hanno detto parole di pace. Lei veste gli abiti quotidiani, difende un’atmosfera di pace. Lentamente ha portato non ad una pace ma ad una tregua comunque attesa e benefica anche per l’intero paese.

Un vescovo vive le tragedie che sconvolgono la vita di una comunità ma anche la normalità di famiglie operose che cercano di educare i propri figli ad essere cittadini responsabili. Cosa può fare la Chiesa per accompagnare e sostenere i genitori?

Nelle tragedie come questa la Chiesa può stare vicino, capire, confortare, condannare il male. Può fare tantissimo dando motivazioni, dando speranza là dove non c’è. Portando per mano i giovani verso ideali alti. Tutto quel lavorio che nasce dalla festa della resurrezione di Cristo perché è lì il punto nodale del discorso, annunciarlo e testimoniarlo soprattutto con una tenacia grande e la profezia che va oltre la paura e oltre il male.

Accanto alla violenza, che provoca giustificati allarmismi, c’è anche la strisciante e silenziosa rassegnazione di chi non crede che sia possibile cambiare nulla. Anche questo è un pericolo. Come possiamo combatterlo?

Questo è il pericolo maggiore. La Calabria e il Sud non soffrono come primo male il dramma della ngrangheta o della mafia. Soffrono la terribile insidia del destino. Insidia tutti: anche gli intellettuali, talvolta anche i preti e  la nostra realtà di vescovi. Questo fatto, che in fondo è sfiducia nella risurrezione, è ciò che noi ci proponiamo di affrontare come primo grande obiettivo. Dobbiamo aiutarci a lottare contro questo destino oscuro attraverso due cose: una forte catechesi e dei segni precisi che dimostrino che quello che diciamo è vero. Creare un binomio sereno e positivo fra sogno e segno, fra un sogno alto e un segno efficace. Quest’armonia salva la comunità e ravviva la Chiesa anche oggi.

La 41a Giornata Mondiale della Pace avrà come tema “Famiglia umana: comunità di pace”. Il titolo rivela un programma ambizioso, a vista di molti addirittura utopico. Con quali parole e con quali gesti si può annunciare al mondo odierno l’unità e la riconciliazione?

Questa è una domanda più grande di me! Attendiamo il messaggio del Papa… Ma se ci riallacciamo al discorso di prima possiamo dire che il sogno è alto, ma guai se non avessimo sogni alti! L’importante è agire nel concreto creando segni efficaci, coerenti anche fra le lacrime che sono capaci di dare sostanza a questo sogno con dei gesti precisi. Sono questi che salvano il mondo. Nascono da una fede grande sostenuta da una speranza vera che si fa carità.  Nel piccolo i passi umili diventano capaci di guardare su chi volge lo sguardo all’Altissimo, sull’umile e su chi conserva un cuore puro.




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