In attesa che arrivi una famiglia
di Liliana Carollo
L’affido dei neonati e dei bambini piccolissimi
La legge 184 del 1983 che ha affermato con forza il diritto del bambino a vivere in una famiglia, è rimasta negli anni sostanzialmente inapplicata a causa della mancanza di una cultura dell’affido familiare. La situazione non é molto cambiata neppure dopo la legge 149 del 2001 che ha ulteriormente riaffermato il diritto del bambino temporaneamente privo di una famiglia idonea ad essere collocato in affido familiare stabilendo che tale collocazione non sia una possibilità, come prevedeva la prima legge (il minore temporaneamente privo ….. può essere affidato ad una famiglia…), ma un obbligo (il minore temporaneamente privo…..é affidato ad una famiglia….).
Come dimostrano inequivocabilmente i dati fin qui raccolti riguardanti i minori in affido e i minori inseriti in strutture variamente denominate, l’affido familiare non è mai diventato un intervento di prassi per il sistema dei servizi territoriali né per le situazioni di disagio né per quelle in cui i bambini, allontanati dalla famiglia per decreto della magistratura minorile per gravi carenze o abusi, dovevano essere collocati in altra “idonea” sistemazione.
Neppure i giudici minorili hanno sollecitato l’utilizzo dell’affido familiare nel rispetto della legge vigente, anche quando l’inserimento in struttura riguardava bambini molto piccoli o si prospettava come molto lungo. A volte, anzi, gli stessi giudici hanno provveduto nei loro decreti ad indicare in quali specifiche strutture i minori dovessero essere ricoverati
L’esperienza dei “Servizi Affidi” sorti negli anni ’80 che hanno utilizzato l’affido nelle varie situazioni di difficoltà verificando con l’esperienza come esso sia un intervento dinamico e flessibile, non si è generalizzata e non ha vinto le resistenze di molti operatori della tutela. È rimasta fra gli addetti ai lavori una profonda diffidenza verso questo intervento, vissuto come “pericoloso” per l’integrità e la conservazione dei legami familiari del bambino.
Sono state addotte varie giustificazioni per negare una famiglia affidataria ad un bambino temporaneamente privo di una famiglia:
– la famiglia di origine si oppone all’affido
– il bambino non accetterebbe il rapporto con altre figure genitoriali
– tanto è per poco tempo
– è un bambino troppo disturbato
– non ci sono famiglie affidatarie
– la proposta di affido romperebbe il buon rapporto dei servizi con la famiglia di origine.
Si tratta in realtà di giustificazioni che nascono per lo più dai “cancelli mentali interni” (come li ha chiamati la Kaneklin) degli operatori e che sono causati dai fantasmi suscitati dall’affido:
– che il bambino perda l’affetto verso i suoi genitori o comunque che il bambino “dimentichi”;
– che non voglia più rientrare nella sua famiglia perché “affezionato” agli affidatari;
– che la famiglia affidataria induca nel bambino confronti negativi con la sua famiglia d’origine;
– che gli affidatari ostacolino il suo inserimento in quella adottiva, se dichiarato adottabile;
– che la famiglia affidataria non voglia più “restituire” il bambino alla sua famiglia.
Insomma l’affido viene percepito come “rischioso” di perdita del bambino, per cui, colludendo con i timori dei familiari e solidarizzando con loro, gli operatori hanno preferito finora, nella maggior parte dei casi, inserire il bambino in una struttura (istituto o comunità). La struttura, infatti, non viene vissuta come “rivale” della famiglia di origine perché non si teme che il bambino possa instaurare con gli educatori relazioni affettive tali da compromettere l’attaccamento ai propri familiari. Essa realizza il cosiddetto luogo “neutro”, rassicurante per gli adulti proprio perché privo di valenze affettive troppo significative, e perciò ritenuto protettivo dei legami familiari.
È evidente che si tratta di scelte indotte da una cultura adultocentrica che pone in primo piano le esigenze degli adulti e che non si preoccupa invece di trovare le soluzioni che meglio rispondono ai bisogni dei bambini. Questi fantasmi, che già inducono a escludere generalmente l’affido familiare come alternativa all’istituzionalizzazione, e che nella maggior parte riguardano situazioni di bambini più grandi che hanno già strutturato dei legami familiari, anche se carenti o distorti, si rafforzano ulteriormente di fronte alla necessità di trovare una sistemazione provvisoria per i bambini neonati e piccolissimi. Si tratta di bambini per i quali non è possibile procedere al collocamento in affidamento a rischio di adozione, oppure di bambini che, anche se non riconosciuti dai genitori, a causa dei tempi burocratici del tribunale, debbono attendere uno, due, tre mesi in ospedale o in una struttura la loro nuova famiglia, o, ancora, di bambini figli di genitori con gravi difficoltà di cui devono essere verificate le capacità genitoriali oppure nei confronti dei quali debbono essere attuati programmi di aiuto e di cura. Per questi bambini, purtroppo, le resistenze ad una sostituzione provvisoria dei genitori biologici o adottivi diventano spesso insormontabili. Il timore che bambini neonati e piccolissimi sviluppino un attaccamento in qualche modo definitivo verso genitori “provvisori” defraudando quelli “definitivi” di quell’investimento affettivo totale ed esclusivo che si ritiene spetti solo a loro, induce molto spesso gli operatori a negare a questi bambini un affidamento familiare temporaneo.
Per i neonati e bambini piccolissimi si preferisce allora l’inserimento in strutture residenziali proprio perché luoghi “neutri” che permetterebbero di conservare sgombro quello spazio affettivo che deve essere “occupato” solo dal legame con i genitori definitivi. Quanto siano neutre queste strutture è confermato dal fatto che generalmente i genitori cui il bambino viene poi affidato, lo “prelevano” dalla struttura come fosse un “oggetto”, senza che si ponga il problema di un passaggio graduale, anzi, essi vengono spesso invitati dagli operatori, specie se la permanenza si è prolungata, a portarsi a casa il bambino in gran fretta perché bisognoso di urgenti cure affettive. Solo in questo momento viene quindi riconosciuto il bisogno del bambino di attaccamento, bisogno che si ritiene sia rimasto lì, congelato e intatto, in attesa che i genitori, biologici o adottivi che siano, possano ora soddisfarlo, come se solo in quel momento il bambino cominciasse a vivere la sua storia e iniziasse il suo rapporto col mondo esterno.
La negazione del diritto alla famiglia é quindi continuata negli anni nonostante che da oltre 50 anni sia stata ampiamente dimostrata da innumerevoli studi e ricerche l’importanza per il neonato e il bambino piccolissimo di poter svilupparsi in un nucleo familiare accogliente e disponibile, e come alcune caratteristiche basilari della personalità (senso di sicurezza, possibilità di autonomia, capacità di stabilire rapporti adeguati con gli altri ecc.) si fondino su una relazione significativa e coerente con figure accudenti fin da subito dopo la nascita.
L’affido familiare è quindi l’unica risposta possibile al bisogno di attaccamento del bambino neonato e piccolissimo che è temporaneamente privo di una famiglia e costituisce perciò un intervento di prevenzione primaria di patologie dello sviluppo mentale e psichico (quante difficoltà relazionali genitori-figli adottivi possono essere dovute alla deprivazione di cure materne adeguate nei primissimi mesi di vita? quante ricerche ossessive delle proprie radici nascono dal vuoto affettivo, diventato incolmabile, sofferto nei primi mesi di vita trascorsi in istituto? )
Il luogo neutro offerto dalla struttura al bambino “in attesa” della sua famiglia non può non rivelarsi in tutto il suo squallore se confrontato con la situazione dinamica e ricca di relazioni dell’affido familiare.
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