Pazienza

Aspetta, sii paziente se vuoi essere felice

di Giovanna Abbagnara

Chi non ha mai fatto una fila alla posta sentendo crescere dentro di lui una grande impazienza? Oggi, nel nostro itinerario alla ricerca della felicità, vi propongo di riflettere su un aspetto fondamentale del nostro vivere: l’attesa.

L’altro giorno guardavo divertita la mia nipotina seduta su una sediolina davanti al forno della cucina attendere che i dolcetti che avevamo impastato insieme, fossero cotti. Ogni due minuti mi domandava con aria supplichevole: “Zia ma sono pronti?”. Ed io: “No, Teresa. Devi attendere il tempo necessario”. E lei: “Ma io voglio mangiarli subito!”.  Aveva ragione povera piccina. La sua golosità attendeva una risposta immediata. Ma guardandola aspettare ho pensato a quanto sia diventato difficile oggi coniugare il verbo attendere nella nostra vita.

Nell’epoca della velocità e del “tutto e subito”, l’attesa è una delle condizioni vissute con maggior disagio. Spesso è accompagnata da un’ansia crescente che ci porta a riempire a tutti i costi ogni spazio vuoto con cose da fare o da dire. Abbiamo quasi paura delle conseguenze che l’attesa, quella “pausa” può avere nella nostra vita. Attendere richiama una virtù importante che è quella della pazienza. Ed essere pazienti vuol dire “saper aspettare”, attendere silenziosamente il compimento di qualcosa. La virtù è quanto mai importante nelle relazioni che costruiamo in famiglia o anche nell’amicizia: saper attendere i tempi dell’altro, del proprio sposo, del proprio figlio senza pretendere che le cose vadano per forza nel senso che noi vorremmo, è certamente una garanzia di crescita di quel rapporto.

Scriveva Rainer Maria Rilke, un poeta cha amo molto a proposito della scrittura: “Bisognerebbe saper attendere, raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide. Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si aprono al mattino. Bisogna saper ripensare a itinerari in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell’infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando portavano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e grevi trasformazioni, a giorni in stanze silenziose e raccolte e a mattine sul mare, al mare sopratutto, a mari, a notti di viaggio che passavano con un alto fruscio e volavano assieme alle stelle – e ancora non è sufficiente poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si rimarginano. Ma bisogna anche essere stati accanto ad agonizzanti, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori intermittenti. E non basta ancora avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando diventano sangue in noi, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, soltanto allora può accadere che in un momento eccezionale si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso”. Come stridono le parole di questo giovane e appassionato poeta con il nostro modo tutto adrenalinico di vivere le nostre giornate, costantemente proiettati al futuro, sempre ansiosi per delle scadenze in arrivo o per degli impegni da rispettare. Non siamo capaci più di attendere e per questo passiamo da un’esperienza all’altra per evitare di annoiarci cercando emozioni sempre nuove appena assaporate per poi passare subito alla successiva. Forse è per questo che vedo tanti adolescenti passare da una storia all’altra come le puntate di un telefilm hanno l’inizio e sicuramente una fine perché poi si aspetta il nuovo. Ma nella mia vita ho visto tante persone vivere un tempo di attesa con grande speranza: ho visto genitori attendere anche dieci anni prima di stringere tra le braccia il proprio figlio, superando ogni ostacolo dell’adozione; ho visto donne attendere l’esito della risonanza magnetica dopo un primo e doloroso ciclo di chemioterapia, ho visto genitori alzati fino all’alba su un salotto di casa attendere il proprio figlio poco più che adolescente ritornare a casa il sabato sera. Attese cariche di paura, attese spesso non realizzate, attese che dovrebbero insegnarci le piccole attese di ogni giorno.

Saper aspettare, sedersi, spesso sono salutate come mancanza di intraprendenza. Invece la forza di un uomo è proprio in questa capacità di attendere con pazienza e umiltà il tempo opportuno senza scoraggiarsi o farsi prendere dalla morsa del fallimento. Quanti matrimoni potrebbero essere salvati se si esercitasse maggiormente l’arte della pazienza! Che non vuol dire solo contare fino a 10 prima di parlare ma significa rispettare i tempi dell’altro, accogliere i cambiamenti che si vedono nei propri figli, attendere che Dio riveli la sua volontà in quella particolare circostanza anche in quelle più dolorose o in quelle in cui vorremmo fuggire.

L’attesa come qualcuno pensa non è mai un’azione passiva, uno stato privo di speranza ma un vivere pienamente il momento presente con la coscienza che in quell’oggi è racchiuso il seme di qualcosa che germoglierà. Attendo allora lo sposo perché le nostre differenze non diventino distanze, attendo un figlio che nella ribellione manifesta la sua lotta verso la propria identità, attendo un amico che mi ferisce senza saperlo. Attendere significa lasciare che il Bene vinca contro ogni forma prevaricazione o di egoismo. Saper attendere significa innanzitutto lasciare spazio a Dio perché sia Lui a dirigere la nostra vita e non i nostri desideri o le nostre paure. Sì, la paura ci paralizza, l’avidità ci imbruttisce, la pazienza invece ci aiuta ad avere fiducia senza essere sopraffatti dalla disperazione. Dobbiamo imparare ad aspettare insieme, alimentare ciò che è già cominciato, “attendere il suo compimento: questo è il significato del matrimonio, dell’amicizia, della comunità e della vita cristiana” scriveva Henri Nowen. Ed è quello che ci auguriamo insieme in questo cammino alla scoperta del segreto della felicità!

Ed ora muffin al cioccolato pronti per essere mangiati con la mia nipotina!

Buon cammino amici!




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