Nel cuore delle città, nel cuore di ogni uomo

di don Rino Cangiano

La testimonianza di don Bosco è ancora viva nei cuori di chi si dà da fare negli oratori, nelle parrocchie e nei borghi delle nostre città. Approfondiamone qualche aspetto attraverso le parole di un padre salesiano.

Sono un salesiano, da cinque anni parroco e opero nell’oratorio di Salerno. L’esperienza dell’oratorio la si può comprendere solo guardando alla vita di San Giovanni Bosco e a quello che lui intendeva quando parlava di questi luoghi. Innanzitutto lo stile prettamente familiare. La prima cosa importante che contava nei suoi oratori era che si respirasse un clima familiare, i giovani si possono conquistare solo dove si vive un amore vero non fittizio fatto di semplicità, di genuinità.

È interessante vedere che don Bosco, ebbe a suo tempo nell’ 800 la lungimiranza di intessere con moltissime famiglie forti relazioni (ne è prova un lungo epistolario) e molto spesso interveniva per risolvere problemi educativi, offrendo loro consigli, suggerimenti, soluzioni, incoraggiando sempre. Il suo desiderio era quello che l’oratorio potesse diventare ispirazione per ogni famiglia, soprattutto per tutte quelle famiglie che condividevano con lui la stessa passione per i giovani, la stessa passione per la vita e quindi per l’educazione alla vita e alla famiglia. Il centro della sua opera è la coscienza di aver ricevuto la chiamata ad essere in mezzo ai giovani, non di parlare ai giovani o di parlare sui giovani, ma di vivere in mezzo a loro, di stare con loro e con loro stabilire un dialogo fraterno per educarli ad una vita vissuta nella sua pienezza. Al ragazzo che bussava alla sua porta perché non aveva una casa don Bosco offre un posto per dormire, anche se poi quel ragazzo gli avrebbe rubato in casa, al ragazzo che bussa alla sua porta perché ha fame, offre la minestra.

L’oratorio non va concepito come un luogo in cui i preti furbi, offrono uno spazio per giocare così che tutti vengano in chiesa. Non è questa l’idea, l’oratorio è ben altro. L’oratorio è prima di tutto il rapporto tra un sacerdote e un ragazzo, un sacerdote che di quel ragazzo coglie quelli che sono i suoi bisogni concreti, al quale offre risposte concrete e non parole. Don Bosco più che il gestore di una struttura è un uomo che sa leggere le situazioni, è un uomo che sa dare a queste situazioni, delle risposte reali. Ma a chi si è ispirato don Bosco sostanzialmente?

Il suo intento era sicuramente quello di arrivare a Gesù, di mostrare ai giovani un Gesù concreto e non superuomo, un Gesù che si è incarnato, che si è fatto uomo. Se guardiamo a questo Gesù, scopriamo a quali elementi della sua vita don Bosco guardava. Gesù condivide la vita della gente, per trent’anni ha vissuto nella sua famiglia, partecipava al lavoro di suo padre, partecipava alle feste, alle sofferenze, alle gioie. E non solo.

La presenza di questo Gesù è una presenza vicina, accogliente, gioiosa, aperta a tutti, soprattutto verso coloro che nella società di allora erano i cosiddetti esclusi, quelli che non contavano niente. Quando si parla di oratorio, come strumento di formazione, bisognerebbe ispirarsi a questo Gesù che presenta braccia aperte verso tutti, specialmente verso i più poveri e i più bisognosi, una presenza che sa comprendere, che sa condividere, una presenza che fa proposte autentiche di crescita e di conversione sfruttando tutte le risorse umane.

Don Bosco diceva che anche nel giovane più “disgraziato”, usando un termine un po’ infelice, c’è un ponte che tende al vero, il compito dell’educatore è cercare questa corda sensibile stringendo un rapporto amichevole, avere questo senso positivo del mondo giovanile, vedendolo non come un problema, ma come una risorsa del nostro futuro, del nostro domani. È per far questo bisogna suscitare atteggiamenti di ascolto, di simpatia, di dialogo. Bisogna inoltre favorire uno stile che privilegia la persona, l’incontro personale con ogni singolo giovane, don Bosco con ognuno aveva la capacità di saper dire una cosa proprio a lui e non in generale.

Concludo narrandovi l’esperienza di un giovane che ha incontrato don Bosco. Questo giovane di  13   anni, si chiamava Michele Magone. Don Bosco lo ha conosciuto mentre era alla stazione di Carmagnola, un paesino vicino Torino. Faceva molto freddo e ad un cero punto, Michele insieme alla sua banda, vede questo prete e comincia a prenderlo in giro a buttagli dei sassi. Quando don Bosco si avvicina tutti scappano, ma lui che è il capobanda no, lui rimane. Don Bosco riesce ad intessere con questo ragazzo un dialogo e mentre va via scrive al suo parroco per chiede informazioni su questo ragazzo e va a trovarlo. Scopre che la madre, per poter andare avanti lavora tutto il giorno e lui va in giro con i suoi amici, cresce in mezzo alla strada. Don Bosco riesce a convincerlo ad andare nel suo oratorio a Torino. Questo ragazzo cambia totalmente la sua vita. Un giorno, di notte mentre tutti quanti dormono, don Bosco sente piangere qualcuno.

Era proprio Michele che non stava dormendo ma dalla finestra guardava la luna e diceva “don Bosco guardo la luna che non si spegne e sta lì a compiere l’impegno che il Signore le ha dato e non l’avevo mai guardata sotto questa prospettiva”. Piangendo diceva a Dio quanto fosse grato per ogni dono ricevuto. Non stava fingendo, stringeva in maniera affettuosa la mano di don Bosco, e guardandolo negli occhi, pieni di lacrime, diceva “Io non so come esprimere la mia riconoscenza per la grande carità che ho trovato nel tuo oratorio. Cercherò di compensarla con la buona condotta e pregando il Signore che mi dia sempre il suo aiuto”. Michele comprende quel giorno che don Bosco lo ha amato e lo ha amato non perché era un bravo ragazzo, lo ha amato per quello che era.




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