XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 2 ottobre 2016

La persona che amo mi aiuta a divenire migliore

coppia

di fra Vincenzo Ippolito

Nel rapporto di coppia ed in famiglia la fede è il frutto dell’offerta che l’altro fa di se stesso e dell’ impegno reciproco a creare le condizioni perché il rapporto cresca e si consolidi. Senza questa doppia sinergia come poter dire che si matura nell’amore, si cresce nel dono, ci si aiuta nell’educazione dei figli?

Dal Vangelo secondo Luca (17,5-10)
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

 

Dietro Gesù, ci stiamo avvicinando a Gerusalemme, quasi senza accorgercene. Il cammino, infatti, è reso meno pesante dalla presenza del Maestro che parla dei misteri del Regno e mostra la potenza della misericordia del Padre. Più si procede verso il compimento della sua missione e più la meta acquista chiarezza anche per i discepoli – Se ne saranno accorti veramente? E noi con loro siamo coscienti che si avvicina il Golgota come prova suprema dell’amore? – dal momento che la sequela è chiamata radicale ad essere con il Maestro, nella totale condivisione della sua vita e a fare come il Maestro, per continuare, rivestiti di Spirito Santo, la sua opera tra gli uomini. Camminare con Gesù per essere come Gesù: è questa la grazia da ravvivare – è quanto Paolo chiede a Timoteo, nelle prime battute della seconda Lettura di oggi, cf. 2Tm 1,6 – perché non abbiamo ricevuto “uno spirito di timidezza, ma di forza, amore e saggezza” (2Tm 1,7). Solo Cristo può soffiare potentemente sul fuoco delle nostre relazioni perché la fiamma riprenda il vigore e la forza che viene da Dio ed è capace di incendiare di misericordia la nostra storia.

Scegliere tra le varie perle evangeliche

Il capitolo XVII – come il precedente, di cui abbiamo letto due brani nelle ultime due domeniche – raccoglie diversi insegnamenti del Signore. I primi quattro hanno come tema in sequenza lo scandalo (cf. Lc 17,1-3a), la correzione fraterna (cf. Lc 17,3b-4), la forza della fede (cf. Lc 17,5-6) e la necessità di sentirsi servi inutili (cf. Lc 17,7-10); segue poi la narrazione del miracolo dei dieci lebbrosi (cf. Lc 17,11-19) – la ascolteremo la prossima domenica – pagina che fa da spartiacque tra le prime quattro e le ultime due istruzioni, rispettivamente sulla venuta del Regno di Dio (cf. Lc 17,20-21), la prima, e sul ritorno glorioso del Signore (cf. Lc 17,22-37), l’ultima. Di queste svariate narrazioni, la liturgia ne seleziona appena sei versetti per nutrire la nostra fame di Dio – sarebbero il terzo (cf. Lc 17,5-6) ed il quarto quadro (cf. Lc 17,7-10) – sei fili che si intrecciano con la nostra esperienza quotidiana di vita e che formeranno la storia della nostra amicizia, personale e familiare, con Dio. Entriamo nella dinamica narrativa del capitolo diciassettesimo, così sarà più agevole comprendere l’insegnamento del nostro brano.

Dopo la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone (Vangelo della scorsa domenica, cf. Lc 16,19-31), Gesù, con toni molto forti, ha messo in guardia i suoi discepoli dallo scandalo, mostrando quanto sia importante, nella comunità, attuare la reciproca correzione ed il perdono vicendevole. I discepoli comprendono bene che la parola del Maestro è tutt’altro che semplice. Il suo “Se [il tuo fratello] commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai” (Lc 17,4) innesca nella vita personale, come anche nel tessuto della comunità, la dinamica disarmante della misericordia che offre a chi ha sbagliato possibilità sempre nuove di riscatto, perché tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare dall’altro.

Gli Apostoli – si tratta della cerchia più ristretta dei Dodici – si rendono conto che è richiesto loro un balzo in avanti. Scorrendo i Vangeli ci accorgiamo che non è questa la prima volta, anzi che il cammino di discepolato è proprio scandito dal progressivo procedere in avanti, a tappe graduali, ma ben scandite. Pietro, dopo una notte infruttuosa, sarà chiamato a gettare le reti, fidandosi della parola del Maestro (cf. Lc 5,4-5) e sperimentando così una pesca prodigiosa. Dinanzi alla parola del Signore, dopo la triste fuga del ricco notabile (cf. Lc 18,25), i discepoli, chiusi nella mentalità umana – “Chi può essere salvato?” (Lc 19,27) – verranno invitati a saltare il guado del pensare comune per sposare la causa del “Ciò che è impossibile presso gli uomini, è possibile a Dio” (Lc 19,5), Qualcosa di analogo accadrà ancora quando Gesù rivelerà la volontà di Dio sul matrimonio, progetto stravolto dalla durezza del cuore umano (cf. Mt 19,1-9). Allora i discepoli parleranno in termini di “convenienza”, incapaci di buttarsi nell’avventura dell’amore fedele che rende ogni creatura vera immagine di Dio-amore. Nella vita è necessario saltare, da una tappa ad un’altra, passare da un’età all’altra, andare da un luogo all’altro, sapendo che il Signore vigila sopra di noi e ci custodisce, come la pupilla dell’occhio.

I discepoli comprendono che, con le sole forze umane, non potranno obbedire alle parole del Maestro e compiere il salto richiesto. Come Pietro, la misura del nostro perdono è troppo umana, soggetta al computo algebrico – “Quante volte dovrà perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte” (Mt 18,21) – non riesce a giungere al “settanta volte sette” (Mt 18,22) o al “sette volte al giorno” (Lc 17,4), rendendoci misericordiosi come il Padre. I discepoli sanno che solo la fede può far compiere quel salto che supera la grettezza della mentalità umana ed apre il cuore ad orizzonti mai pensati né sperimentati prima della venuta di Gesù Cristo.

La richiesta dei discepoli “Accresci la nostra fede!” (Lc 17,5) mostra il desiderio di voler seguire il Maestro sulla strada dell’amore esigente e gratuito, ma è necessario, ed essi se ne accorgono, prima crescere e maturare nell’amore, essere guariti dalla cecità dello sguardo e dall’egoismo del cuore. Solo così, rinnegando se stessi, si potrà seguire con radicalità il Signore. Proprio per questo risulta bella e al tempo stesso vera la voce accorata ed orante degli Apostoli, “Accresci la nostra fede!”. Manifestano la loro povertà senza paura, pongono dinanzi al Signore l’incapacità del cuore, non sempre allenato a battere all’unisono con il suo, tutto orientato al Padre, pronto a farsi trafiggere dagli uomini, pur di salvarli. Sono consapevoli delle proprie debolezze, ma non si lasciano bloccare da quanto vedono in loro, dall’incapacità che li rallenta, dall’egoismo che li frena, dall’astenia che li fiacca. Si riconoscono incapaci nel realizzare quanto che il Signore chiede, per questo domandano il suo aiuto. Desiderano obbedire a Gesù, ma hanno bisogno del suo soccorso, del suo sostegno, della forza che viene da Lui. Sanno che in noi c’è il desiderio del bene, manca, invece, la capacità di attuarlo (cf. Rm 8,18). Ecco perché domandano l’intervento potente del Signore, come Pietro sulle acque, come quella volta sul lago, nell’imperversare della tempesta, hanno sperimentato che il Maestro non è sordo al grido e alla supplica dei suoi figli, Egli il Dio che non prende sonno. Può Gesù non intervenire? Può il Signore lasciarli nell’incapacità di saltare il baratro per camminare sul terreno sicuro? Può forse il Figlio di Maria permettere che la nostra debolezza porti i suoi a ripiegarsi su di se stessi e a fermarsi, come il profeta Elia, perché appare impossibile quanto è stato loro chiesto?

Non c’è cosa più bella, nel rapporto di coppia che manifestare la propria difficoltà, chiedere aiuto per compiere quel salto che si percepisce come importante ed essenziale nel cammino di maturità e di crescita, ma che non si riesce a fare. La persona che mi è accanto è il mio sostegno se io gli permetto di esserlo, mi offre una mano, se mi lascio aiutare. Come i discepoli, anche nel rapporto tra gli sposi, non si deve avere vergogna dell’altro/a, ma è importante che si crei quel clima di fiducia e di confidenza che permette di aprire il cuore in tutta sincerità. Se la persona che amo non mi dice tutto, se conserva per sé qualcosa, per paura di essere giudicata, mal compresa, allora devo rivedere il mio modo di accoglierla e relazionarmi a lei. L’altro/a è in grado di farmi crescere, di aumentare la mia sicurezza, di sostenere la mia maturazione, se io lo voglio, se io lo chiedo. Chiedere è essenziale, non solo nel cammino di coppia, ma anche nella relazione con i figli. Chiedere vuol dire manifestare il bisogno dell’altro, non solo o non tanto nelle cose materiali o negli impegni da ottemperare, ma bisogno e necessità dell’altro per quello che è, per l’affetto che dona, la sicurezza che offre. La persona che amo, “mi aumenta”, mi porta a divenire migliore, a crescere in tutto e per tutto, se io lo voglio, se io lo chiedo con umiltà, se l’altro/a è disposto a vivere questa reciprocità nella guida e nel farsi guidare. La mia capacità viene da Dio, attraverso l’altro/a. Senza di lui/lei io non cresco, perché chi mi conosce meglio della persona che condivide i giorni della sua vita con me? Chi potrò aiutare meglio della persona che è mia carne e mio osso e che vive con il mio respiro che gli dono ad ogni bacio, come io per il suo?

Un modo diverso di percepirsi e di percepire

Gli Apostoli devono vivere della vita di Gesù, è questo il passaggio che devono compiere. In caso contrario, continueranno ad essere carnali – si tratta della terminologia che san Paolo utilizza per indicare l’egoismo come unico orizzonte di vita e di azione – ovvero centrati nel “pensare secondo gli uomini e non secondo Dio” (Mc 8,33). Non si tratta di un passaggio semplice, tutt’altro perché “l’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1Cor 2,14-15). È la fede che ci rende da uomini naturali e carnali – permeati dall’io che rifiuta Dio come Signore – uomini spirituali, interiormente mossi e determinati dallo Spirito di Cristo. Questo passaggio dal credersi creatori di se stessi e padroni della vita degli altri a creature di Dio e collaboratori suoi nella realizzazione della sua volontà è opera dello Spirito nel cuore di chi ha fede. La vita cristiana è vita di fede, ovvero vita di abbandono a Dio, di obbedienza a Lui, di fiducia nella sua Parola, di accoglienza degli altri come fratelli. La porta della fede ci apre all’universo di Dio e dell’uomo, perché dona di entrare in un modo di vivere diverso, alternativo e spesso diametralmente opposto a quello del mondo. Ecco perché in noi, due logiche si trovano continuamente a combattere: quella del mondo che rifiuta Dio e quella di Dio che a Lui orienta le realtà della terra.

La fede è la capacità di vedere l’invisibile, di percepire Dio all’opera nella nostra vita, di sapere di non essere soli, di mai brancolare nel buio, perché la notte è chiara come il giorno per chi confida nel Signore. Come il sole, con la luce, rende conoscibile e visibile la realtà che ci è intorno, così la fede, quale certezza della presenza e della vicinanza di Dio, dona la capacità di vedere con gli occhi di Dio ogni cosa. Dire Io ho fede in Te, confido nel tuo amore, mi abbandono alla fedeltà della tua misericordia è sempre frutto di un’esperienza, del rivelarsi della potenza di Dio nella mia vita. Il Signore si fa vedere nelle situazioni concrete della mia storia – nella persona che mi è accanto, nella comunità che frequento, nel gruppo di cui faccio parte – ed io gli rispondo con la fede, imparo a fidarmi di Lui, a dargli spazio nella mia vita come io ho trovato spazio nel suo cuore da sempre. La fede come fiducia e confidenza, è una risposta libera a Dio che per primo mi ama e mi viene a cercare. Essa nasce in me come conseguenza dell’amore che il Padre ed il Figlio vi hanno in abbondanza riversato, come frutto dello Spirito Santo che mi spinge verso il Padre, nella compagnia del Signore Gesù. “Accresci la nostra fede!” cos’altro significa se non Che io ti veda, ti riconosca, ti ami? “Accresci la nostra fede!” non vuol forse dire Maestro, barcolliamo sulla via dell’amore se tu non ci conduci per mano! Cadiamo, nel desiderio di risollevare il fratello, se tu non ci sostieni?

Fede è abbandonarsi all’abbraccio dell’altro, a quello che lui è, a ciò che egli dice, alla rettitudine delle sue intenzioni, alla bontà delle sue richieste. Fede significa obbedire all’altro, anche quando sembra che non ci siano i presupposti. Fede è relazione, segno del legame che si vive con chi si ama e da chi ci si sente amati, relazione che non dipende dal tempo o dalle situazioni per rimanere stabile, ma che è salda perché forte più della morte è l’amore. Fede è vivere alla presenza dell’amato, che ci sia o che non ci sia, che lo vede con gli occhi e lo ascolti con gli orecchi del corpo o meno. I discepoli avvertono che il passo non è semplice. Riconoscono che hanno poca fede – è questo il rimprovero che spesso il Maestro farà loro! – e allora vogliono correre ai ripari. Come il tale che, volendo costruire una torre, si siede a calcolare se ha i mezzi per portarla a termine o quel re che, prima di partire in guerra contro un altro re, calcola la sua forza militare (cf. Lc 14,28-32), i discepoli si guardano dentro e si vedono bisognosi di tutto. Chiedono un surplus, quel di più per vederlo, percepire la sua presenza, trovare in Lui la forza. Ma la fede è, al tempo stesso, dono di Dio e responsabilità dell’uomo. Da un lato, infatti, è la risposta dell’uomo a Dio che si rivela nella storia, dall’altro, invece, è dono suo perché il farsi conoscere di Dio è condizione essenziale per la nostra risposta.

Anche nel rapporto di coppia ed in famiglia la fede è il frutto dell’offerta che l’altro fa di se stesso e del mio impegno a creare le condizioni perché il rapporto cresca e si consolidi. Senza questa doppia sinergia come poter dire che si matura nell’amore, si cresce nel dono, ci si aiuta nell’educazione dei figli? Anche la fede-fiducia dei figli nei riguardi dei propri genitori è il frutto non solo dell’obbedienza dei primi, ma anche della capacità dei secondi nel creare condizioni di serenità e di dialogo, di condivisione e di accoglienza delle diversità che sono sempre una ricchezza, nella complementarietà che l’amore crea.

L’onnipotenza della fede

Come spesso capita nei Vangeli, Gesù non asseconda quanto gli viene chiesto, ma porta il dialogo su un livello superiore. I discepoli, dal canto loro, domandano l’aumento della fede, in termini di quantità. Gesù, di contro, li conduce a riflettere sulla qualità della relazione con Dio e su quanto sia importante conoscere le potenzialità racchiuse in un rapporto di fiducia e di obbedienza che li lega a Lui. L’inversione di rotta che Cristo chiede conduce al cuore dell’amicizia con il Padre: passare da un senso religioso della vita alla fede, quale risposta personale, consapevole, obbediente e filiale, all’iniziativa di Dio che si rivela a noi come misericordia.

“Se aveste fede quanto un granello di senape” (Lc 17,6b), dice Gesù. Il rapporto con Dio è come un albero, tutti vedono la chioma, ma sono le radici ad essere importanti per il suo sviluppo esteriore. La fede è come la radice di un albero, non importa la sua grandezza, ma la capacità di penetrare nel terreno ed attingere nutrimento per l’intera pianta. Ritorna anche qui il Vangelo della piccolezza e dell’umiltà – ci troviamo tra la memoria di santa Teresa di Gesù Bambino e quella di san Francesco di Assisi, i due colossi della piccolezza interiore e della minorità evangelica – perché la fede si misura, potrà sembrare strano, per la piccolezza, ovvero per la capacità di fare spazio a Dio nella propria vita. Un discepolo dimostra una fede grande, solo se riesce a divenire piccolo, docile e abbandonato, confidando totalmente in Dio. Più riconosco la mia piccolezza, conosco la mia povertà e so che Dio è il mio tutto ed a Lui mi affido con tutto me stesso, più il Padre verrà a me con il suo Figlio e porrà in me la dimora del suo Spirito.

La misura della fede, secondo le parole di Gesù, è un granello di senape che, per grandezza, è quanto la testa di uno spillo. La stessa metafora Gesù utilizza per parlare del regno di Dio. Esso “è simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami” (Lc 13,19). Come il seme ha in sé la capacità di germinare e produrre frutti, così anche la fede, per piccola che sia, contiene una straordinaria forza di trasformazione. La certezza della presenza di Dio nella vita del discepolo, la sicurezza del suo amore misericordioso, la confidenza sperimentata nell’abbraccio del Padre, il perdono incondizionato dinanzi ad ogni umano fallimento conduce a crescere nella fiducia e a legare con il Signor un’amicizia così salda che nulla potrà far spezzare.

Ma da dove viene la potenza della fede, la capacità di operare cose straordinarie, anche al di là delle leggi della natura, come sradicare un gelso e piantarlo nel mare, secondo le parole di Gesù? Tutto viene dalla certezza che è il Signore ad operare in noi e per noi. Nella fede io riconosco che Lui mi è accanto e lascio che operi in me e, attraverso di me, nella vita dei fratelli. È questa la dinamica che ritroviamo nel Vangelo secondo Marco. Il Risorto, apparendo ai suoi, promette che “questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono” (16,17) e, alcuni versetti dopo, l’Evangelista appunterà, a dimostrazione della fede che i discepoli vivono dopo la Pasqua, “essi partirono (dopo l’adesione di Gesù) e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (16,20). La fede che dimostrano nella presenza di Gesù opera segni straordinari. Egli lo promettererà nella sera del tradimento: “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Ma le cose più grandi che Gesù ha promesso – potrà l’uomo fare cose più grandi di quelle di Gesù? Si tratta chiaramente di una iperbole – sono il segno della vita condivisa con Cristo, dell’essere innestati in Lui, come i tralci alla vite.  Ecco perché Paolo può dire “Vivo, ma non vivo io, in me vive Cristo” (Gal 2,20). La fede dona la capacità di vivere alla presenza del Signore perché l’uomo di fede sta dinanzi a Lui in ogni attimo della sua giornata e vive di Lui. Scriverà Paolo “Per la grazia di Dio sono quello che sono e la grazia in me non è stata vana – è qui il rapporto tra il dono di Dio e la fattiva risposta dell’uomo – “ho lavorato più di tutti, non io, ma la grazia di Dio che è con me”. Vivere di fede significa comprendere che nella mia vita non sono io l’attore unico della mia storia, ma con me c’è il Signore. Ciò che la fede come fiducia ed amicizia con Dio sradica nel cuore dell’uomo è il gelso dell’illusione di poter fare da soli. La certezza di camminare con Dio mi fa appoggiare a Lui, abbandonando le mie false sicurezze. Fede, secondo la radice ebraica, indica proprio il fondamento saldo ed incrollabile, quasi a dire che chi ha fede, ha il Signore come roccia su cui edificare la vita, chi non ha Lui, si illude di poter fare da sé e costruisce la sua casa sulla sabbia. 

È necessario, oltre che riscoprire la potenza della fede come risposta all’amore di Dio, capire che essa non è un pensiero, un sentimento e neppure un’emozione. La fede è la familiarità che si crea con il Signore, frutto dalla frequentazione assidua della sua Parola, dell’esperienza del suo amore. Fede è credere alla presenza del Signore, accogliendo la sua apparente assenza. Ed è questo che rende più angusta la porta della fede: parlare con una Persona che non vedi, eppure c’è, relazionarti e accogliere le sue sollecitazioni ed i suoi consigli, attraverso le mediazioni che Egli sceglie per entrare in amicizia con noi, dialogare con un silenzio dove misteriosamente la sua voce risuona. Credere alla sua Presenza, accogliendo la sua apparente assenza. Per chi ha fede, Dio è il Vivente, ecco perché Agostino di Ippona lo definiva “più intimo a me di me stesso”. 

Nelle nostre famiglie dobbiamo educarci vicendevolmente a camminare con Dio, alla sua Presenza, esercitando i nostri occhi a vedere Lui, ad ascoltare la sua voce, ad accoglierlo all’opera nella nostra vita. La fede come certezza della vicinanza di Dio fa miracoli. Si tratta dell’onnipotenza della fede. Le biografie dei nostri santi – le cosiddette agiografie – narrano della potenza dei miracoli operati in tutti i tempi da uomini e donne di Dio; Daniele ammansì i leoni nella fossa dove era stato gettato e Antonio da Padova, per confondere alcuni che non credevano alla Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, mostrò l’Ostia consacrata ad un giumento che, digiuno da più giorni, rifiutò la biada e si prostrò dinanzi al Signore vivo nel Pane consacrato, dal canto suo, santa Coleta (1381-1447), clarissa e riformatrice francese, dichiarava alle sue monache “Obbedite a Dio e Dio obbedirà a voi”, quasi a dire abbiate fede in Dio e Lui darà credito ad ogni vostra richiesta. Gli esempi potrebbero centuplicarsi per cantare la potenza della fede, ciò che riesce ad operare l’amore di Dio in coloro che lo amano ed obbediscono alla sua voce. Per indicare ciò che la fede riesce ad operare, Luca presenta un’immagine anch’essa parabolica. Chi ha un minimo di fede potrebbe dire ad un gelso “Sradicati e vai a piantarti nel mare ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17,6). Ecco perché la fede opera miracoli.

Dalla fede al servizio

La seconda parte del brano evangelico odierno (cf. Lc 17,7-10) è un’ammonizione accorata perché la fede in Dio porti a servire la sua volontà con totalità di mente e di cuore. Gesù non vuole da noi un servilismo umiliante, ma, dietro Lui che è il servo (cf. Fil 2,7) un servizio d’amore al Padre la cui volontà è sorgente di vita e di benedizione. Dobbiamo chiedere per ciascuna famiglia il dono dell’umiltà, del lavorare per la gioia dell’altro senza la pretesa del riconoscimento, sapendo che abbiamo fatto quanto dovevamo fare, dopo aver adempiuto il comando del Signore, fedeli al patto nuziale stipulato dinanzi a Lui. Anche qui è questione di occhi nuovi. Solo se nella relazione con la persona che mi è accanto vedo il mio Signore e mi sento sostenuto dalla sua Presenza, riuscirò a vivere il servizio d’amore perché il Dio di cui mi fido mi sostiene con la sua grazia e mi ricolma del suo amore. 




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.