Oltre l’handicap
Quando arrivo alla casa famiglia per incontrare i responsabili, Gaetano e Delfina, è una fredda domenica invernale. La casa pullula di bimbi, adolescenti e ragazze madri. Faccio fatica a distinguere i 4 figli dei responsabili della casa da quelli della Provvidenza che, per strade diverse, sono giunti qui, ognuno con la sua storia e il proprio carico di dolore, in attesa di riprendere il cammino.
Elisa (il nome è di fantasia) è lì, in braccio ad Angela, la primogenita di Delfina e Gaetano. È una bimba bellissima. A settembre compirà 5 anni. Sembra una grande bambola, immobile e silenziosa. Ha due occhi stupendi, difficile credere che non vedano, un viso angelico, impossibile pensare che non possa rischiararsi con un sorriso, i capelli neri folti e lucidi, doloroso pensare che non riesce a sfiorarli con le sue piccole mani.
Ma le carezze non le mancano. Qui tutti le vogliono bene, accolti e membri residenti. A turno si occupano di lei con una dedizione commovente.
Elisa è arrivata il 25 ottobre del 2004. Per tutti questo giorno è quello del suo compleanno.
Nata in un ospedale del nostro agro, non è stata riconosciuta dai suoi genitori. L’handicap spaventa. Poi è stata trasferita in un ospedale del napoletano per la diagnosi e le prime cure.
Una telefonata ha annunciato il suo arrivo. Da pochi mesi era andato via un bambino idrocefalo, felicemente adottato da una coppia di sposi. I membri del Tribunale per i Minorenni hanno intuito che qui avrebbero trovato la porta aperta anche per Elisa. E così è stato.
Delfina si è ritrovata questa piccola tra le braccia che piangeva per ore intere, senza mai smettere. A nulla servivano i diversi tentativi per calmarla. Così, ha deciso di chiamare in ospedale. «Forse – ha pensato – hanno dimenticato di dirmi che ha bisogno di qualche latte particolare o di qualche farmaco».
L’equivoco è venuto presto a galla. Non si trattava di idrocefalia, ma di idroanencefalia. I due termini differiscono poco letteralmente, ma sono due mondi completamente diversi.
L’idrocefalia si riscontra in presenza di riduzione dello spessore del parenchima cerebrale. L’idroanencefalia invece è l’assenza di parenchima cerebrale.
In parole semplici, Elisa non ha il cervello. Successive indagini hanno confermato che ha solo dei piccoli frammenti di encefalo. Non vede, non sente, non si regge in piedi, non può muovere nessun arto, non può camminare, non può comunicare in alcun modo le sue emozioni né le sue necessità.
Eppure questo fagottino che dipende in tutto e per tutto dagli altri è diventato il motore di questa grande famiglia. È lei che dà a ciascuno la forza per impegnarsi e fare della propria vita un dono per gli altri.
Vi è stato un momento in cui il Tribunale, resosi conto del difetto di comunicazione che aveva accompagnato questa accoglienza, offrì a Gaetano e Delfina la possibilità di cambiare idea. Ma essi furono irremovibili. «Elisa qui è arrivata e qui rimane». «Sarebbe stato come abbandonarla una seconda volta – continua Delfina – non potevamo farlo».
Sono passati 5 anni dall’arrivo di Elisa, avvolta nel suo scialle caldo che nascondeva la pesante malattia.
Da quel giorno, ogni attimo è stato una continua scoperta. Quando il cuore è animato dal desiderio di prendersi cura di qualcuno, l’istinto diventa un maestro infallibile.
Gli occhi di Elisa mi ricordano altri occhi, quelli della giovane Englaro che hanno commosso, dagli schermi televisivi e dai quotidiani, l’Italia intera.
Di tutta questa dolorosa vicenda Delfina desidera sottolineare il ruolo meraviglioso svolto dalle suore misericordine che hanno accudito Eluana con lo stesso amore e la medesima dedizione con cui, in questa casa, da 5 anni ci si occupa di Elisa.
«L’esperienza delle suore ricorda a ciascuno che bisogna aprirsi al mondo della disabilità, senza paura, – dichiara con fermezza Delfina – ho sentito dire spesso che “quelli” come Eluana ed Elisa sono persone inermi, che non hanno nulla da trasmettere. Non sono d’accordo! Il loro corpo e i loro sensi possono comunicarci molto, se solo abbiamo un cuore disponibile all’ascolto. I loro occhi ci insegnano a guardare le difficoltà degli altri senza far finta di non vedere, senza pensare che “tanto non possiamo fare nulla”. Le gambe immobili di Elisa mi danno forza nei momenti di stanchezza, mi dico, coraggio, ce la puoi fare, alzati e continua la tua giornata, la stanchezza è solo un limite mentale che ci avvolge. Quando metto il dito sotto la mano di Elisa e lei me lo stringe, mi ricorda che io, che non ho limiti fisici, non il diritto di starmene con le mani tra le mani…».
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