XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 21 agosto 2016

“Ti correggo perché ti amo”

insieme

di fra Vincenzo Ippolito

Correggere significa richiamare l’ideale, chiarire la meta, ricordare il traguardo, corroborare le energie, indirizzare le forze, sostenere l’impegno. Correggere vuol dire riaccendere i desideri belli del cuore, ricordare da dove e come si è partiti, vincere la stanchezza del cammino, riprendendo la retta via.

Dalla Lettera agli Ebrei (12, 5-7.11-13)

Fratelli, avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli:
«Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore
e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui;
perché il Signore corregge colui che egli ama
e percuote chiunque riconosce come figlio».
È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire. 

 

La liturgia di queste ultime domeniche ci sta offrendo le linee programmatiche del nuovo anno sociale, i ciottoli che, come il giovane Davide, dobbiamo mettere nella nostra sacca di viandanti per riprendere il cammino dopo le ferie. La spiritualità del buon Samaritano (cf. Lc 10,25-37), il primato dell’ascolto di Cristo (cf. Lc 10,38-42), la preghiera fatta con confidenza di figli (cf. Lc 11,1-13), il pericolo delle ricchezze che distolgono dalla vera ricchezza (cf. Lc 12,32-48), l’accoglienza delle contrarietà per amore di Cristo (cf. Lc 12,49-53) rappresentano le linee guida del nostro camminare dietro Gesù, pilastri su cui si edificano le nostre famiglie come piccole chiese, dove il Signore pone la sua dimora e manifesta la potenza del suo amore. Il nuovo ciottolo che ci viene offerto oggi per combattere contro Golia è tratto dai pochi versetti delle Lettera agli Ebrei, seconda Lettura della liturgia odierna. Il tema è quello la correzione dei figli, un tasto dolente nella relazione educativa in famiglia, come in ogni rapporto che voglia essere autentico e sincero. Come il giovane Davide prendiamo tra le mani questo sasso per vederne la consistenza e studiare come poterlo utilizzare.

Con lo sguardo fisso a Gesù

Tra le Espistole del Nuovo Testamento, la Lettera agli Ebrei occupa un posto a sé. La sua attribuzione all’apostolo Paolo è stata messa in discussione fin dai primi secoli della Chiesa ed oggi questo non crea particolari problemi. Ecco perché nella liturgia si annuncia semplicemente Dalla Lettera agli Ebrei, senza indicarne l’autore, che resta per noi sconosciuto, diversamente dalle altre Lettere paoline considerate autentiche. Si pensi, ad esempio, alla 1Cor per al quale, durante la liturgia della Parola, il lettore precede la proclamazione dalla nota che ne indica mittente e destinatari Dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. La non paternità paolina dello Scritto non mette minimamente in dubbio il suo carattere ispirato e la sua rilevanza nella vita della Chiesa.

A differenze dalle Lettere di san Paolo, l’Epistola agli Ebrei non presenta i caratteri propriamente epistolari ai quali siamo solitamente abituati – il saluto iniziale, con mittente e destinatario – e questo, insieme ad altri particolarità, quali la lingua e lo stile, portano a considerarla un discorso a tema, un’omelia o anche più omelie messe insieme. Si delinea così anche la figura dell’autore: un ebreo di cultura ellenistica, erudito nell’oratoria, che mostra buona padronanza dell’Antico Testamento. Tema centrale della Lettera è la novità del sacerdozio di Cristo a cui si collegano altri tematiche, sviluppate volta per volta con argomentazioni desunte dalla Scrittura.

Il nostro brano in realtà risulta mutilo (cf. Eb 12,7.10-13), come spesso accade nella liturgia. Mancano alcuni versetti e questo non ne rende agevole la comprensione al pari del mosaico che, privo di alcune tessere, sembra perdere la sua piena bellezza. Invece, leggere l’intero brano, senza tagli, quasi tutto d’un fiato (cf. Eb 12,4-12) – è quello che bisogna fare prima di partecipare alla liturgia – ci offre di comprendere meglio l’intero discorso dell’Autore, senza perdere alcune maglie dell’ordito dell’argomentazione.

La pericope odierna segue quella della scorsa domenica (cf. Eb 12,1-4), un’accorata esortazione a fissare lo sguardo su Gesù, il quale, “dinanzi alla gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia e siede alla destra del Padre” (Eb 12,2). Più si guarda verso Cristo – sembra dire l’Autore – più si pensa “a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità” (Eb 12,3), più si volge l’attenzione alla croce dove Cristo esercita il suo sacerdozio esistenziale, inaugurando “la via nuova e vivente” (Eb 10,20), più il discepolo impara a riconoscere ed accogliere la pedagogia di Dio, lasciandosi ammaestrare e guidare da Lui. In questo contesto si comprende il monito sulla correzione operata da Dio.

In principio la relazione 

Il nostro brano trae le mosse dalla citazione diretta del libro dei Proverbi (3,11-12) che offre non solo il tema, ma lo inquadra nella relazione familiare padre – figlio. Alla base e prima di ogni correzione c’è il rapporto educativo e prima ancora dell’arte educativa va posta la relazione tra genitore e figlio che è un dato fondamentale, inscritto nella propria natura. Già nei termini – padre e madre, figlio e figlia – è indicata l’identità che scaturisce dalla relazione vitale originale che è propria di ogni essere vivente. Il generato è legato indissolubilmente a colui/colei che lo ha generato, come accade anche in natura, la spiga dal seme, il frutto dall’albero, il fiore dal ramo. Il tempo non serve a creare la relazione, ma a consolidarla e a renderla consapevole. Diversamente dalla relazione uomo donna o dai rapporti di amicizia, per i quali si assiste ad una continua e progressiva scoperta dell’altro, che comporta anche il dono di sé, in famiglia, con il tempo, si passa dalla relazione inscritta nella propria carne alla consapevolezza del legame che appartiene fin dal concepimento sia al nascituro come anche a chi lo ha concepito. Da questo si capisce che l’educazione si può veramente considerare un’arte soltanto se si vive l’appartenenza all’altro, se ci si sente amati e se nella fiducia si crea quel clima di ascolto e di accoglienza che deve legare inscindibilmente l’educazione alla relazione vitale, perché l’educazione è il perpetuarsi nel tempo successivo al parto e nelle diverse dimensioni della persona, quel legame vitale che permetteva al bambino, nell’utero della mamma, di sentirsi amato, desiderato, nutrito e protetto. Da questo si comprende che se oggi è in crisi l’educazione è perché i rapporti familiari partecipano della liquidità della nostra società e non si è capaci di avvertire come un tempo il senso appartenenza alla propria famiglia – oggi si parla di famiglie allargate – nella quali le figure educative e le persone che condividono la vita non affondano nella carne la radice della propria relazionalità.

Solo se mi sento amato dall’altro, ascoltato ed accolto, se avverto che chi mi sta accanto ci tiene a me, mi vuol bene, ha gioia nel prendersi cura della mia vita, combattendo continuamente il suo ed il mio egoismo, solo allora riuscirò a vivere la fiducia e mi abbandonerò alle sue mani perché mi plasmino e mi custodiscano dal mistero del male che spesso mi tormenta. Solo se avvertirò che chi mi ha generato nella carne desidera continuarmi a generare nel cuore, a portarmi nel grembo, non per appropriarsi di me, ma per sapere che, pur spiccando il volo, avrò sempre il nido del cuore suo dove sono nato, pronto a sostenermi, a donarmi una sosta nel volo, solo allora potrò dirmi figlio. Solo quando i tratti del mio animo richiameranno quelli di chi mi ha voluto ed atteso, come i lineamenti del mio volto sono copia di chi si è scambiato l’amore e donato con il corpo, solo allora potrò dire di non essere frutto del caso, ma figlio, condotto per mano sul sentiero della vita con la stessa gioia del momento in cui il ventre della mia mamma ha conosciuto i miei primi calci. 

È necessario nelle nostre famiglie accogliere l’educazione come la grande e bella avventura del condividere la vita tra noi, nella scoperta delle proprie radici, nella gioia di appartenersi e di costruirsi insieme come persone. C’è bisogno di più amore, di più ascolto, di meno fretta, di più tempo perché i figli si avvertano non una cosa accanto alle altre che riempiono la vita dei genitori, ma loro cuore, primato invalicabile, impegno dell’amore che a nulla si antepone. È necessario il tempo nell’educazione, come capacità di stare nella vita dell’altro, per guardarlo, osservarlo anche solo da lontano. Educare non riguarda gli atteggiamenti e le parole, ma ciò che si pensa e si è, quanto si porta nel cuore e si condivide con l’altro.

A ben vedere è questo anche il segreto della vita coniugale. Prima di ogni cosa c’è la relazione sponsale, sentire con l’altro la reciproca appartenenza, sentirsi amati ed amare, con una intensità sempre maggiore, ascoltandosi sempre, mai pronti a zittire l’altro, ma a zittirsi, mai rifiutarlo, ma a rinnegare se stessi. I figli respirano l’aria sana di una relazione sponsale serena e ne godono ed in essa trovano stimolo e forza. La prima educazione è la testimonianza per i figli di una relazione di coppia che si rinnova ogni giorno.

Vivere l’educazione come il naturale sviluppo della relazione

Il rapporto genitore-figli che scandisce la vita naturale dell’uomo è utilizzato dall’Autore della Lettera agli Ebrei come analogia per riflettere sul nostro rapporto con Dio. I tratti con cui si parla della cura che il Padre esercita nei riguardi dei suoi figli sono intrisi di profonda tenerezza e di autentico amore: “Il Signore corregge colui che egli ama” (Eb 12,6); “Dio vi tratta da figli” (Eb 12,7); “Dio ci corregge per il nostro bene, al fine di farci partecipi della sua santità” (Eb 12,10). La radice della pedagogia di Dio, il motivo dei suoi interventi è il suo amore paterno ed il fine il vero bene dei suoi figli. Al di fuori di questo orizzonte non solo non comprenderemo la correzione divina, ma non gusteremo – si pensi al figlio maggiore della parabola del padre misericordioso, pur stando in casa, vive da schiavo e non da figlio – non assaporiamo la gioia dello stare nella casa del Padre. Il cuore dell’esortazione è prima di tutto vivere il dono grande della figliolanza divina, perché il Padre ha gioia che gli uomini abbiamo in abbondanza la vita, “siano salvi e giungano alla conoscenza perfetta della verità” (2Tim 2,5). È questo, in realtà, il nostro vero problema perché sia che andiamo via – come il fratello minore della medesima parabola – sia che rimaniamo in casa non sempre riconosciamo nella misericordia il tratto distintivo della paternità di Dio che è la femminilità – le viscere di misericordia richiamano proprio il ventre materno – capacità di generare la vita dell’altro e di farsi generare dall’altro che si porta in grembo nella nuova identità di madre. 

Tutta la nostra vita di fede deve essere volta a vivere la grazia della figliolanza, mettendo a frutto la potenza dello Spirito che Gesù ha effuso sopra di noi e che in noi grida: “Abbà, Padre”. Il Paraclito ci partecipa la vita del Figlio unigenito, la linfa che nutre la nostra esistenza e dignità filiale è quella di Cristo e non solo lo Spirito ci rende figli, ma ci conduce progressivamente a vivere nella stessa modalità scelta da Gesù per mostrare agli uomini il suo essere Figlio amato. Senza partire dal positivo nella relazione con Dio e nei rapporti tra noi, non riusciremo mai a vivere in pienezza la gioia dell’essere cristiani e la società sarà più povera perché mancherà il lievito della vita di quanti sono chiamati a manifestare la gioia di avere Dio come Padre.

Radice dell’educazione e di ogni intervento che noi poniamo nella vita degli altri è quindi l’amore e deve essere sempre e solo l’amore, un sentimento da purificare continuamente perché l’acqua cristallina che il Signore riversa in noi non sia contaminata dai veleni dei nostri desideri egoistici e dai vagheggiamenti, spesso nascosti, ma profondi e sempre nefasti, del nostro desiderio di appropriazione di Dio e degli altri. Senza amore ogni tipo di azione, anche la più giustificata ed opportuna, non sortisce l’effetto desiderato e “si perdono vino ed otri”, ovvero la relazione non matura nel bene e non trasforma i cuori. Solo ricordando la reciproca identità che la natura, mossa dall’amore, crea tra noi, nella relazione genitori-figli, solo nutrendo tale relazione con l’amore continuo, l’educazione diverrà capacità di guidare l’altro sulla via del bene. Tutti dobbiamo convertirci alla necessità di essere educati, senza sentirsi arrivati nel camino della vita. Chi dice che si educano solo i giovani? Anche nel rapporto marito-moglie e tra amici la componete educativa, quale capacità di migliorarsi e di crescere, facendosi aiutare in questo, ricopre un posto importante.

Più si è educati nella relazione con l’altro, in quella reciprocità che è dono accolto ed offerto e più la relazione stessa cresce e si rafforza nella fiducia e nell’amore perché si riconosce nell’altro colui che vuole il mio autentico bene e che combatte con me tutto ciò che mi impedisce di fiorire secondo la volontà del Padre celeste.

Ci si rende così conto che si assiste ad una circolarità in ogni tipo di rapporto interpersonale: l’amore genera e nutre la relazione che spinge alla ricerca del vero bene dell’altro ed in questa ricerca che non conosce i limiti propri dell’amore egoistico e del tornaconto personale, la relazione stessa cresce come luogo in cui ciascuno matura secondo le sue possibilità e la capacità che l’altro profonde nell’aiuto. In tal modo si supera la dicotomia tra chi dona e chi riceve che scandiva la pedagogia di un tempo, perché tutti ricevono e donano. Ecco perché l’educazione rappresenta il naturale sviluppo della relazione vitale, perché educare significa permettere alla propria creatura di crescere e di diventare grande nella costante ricerca del bene e a chi ha generato nella carne, di vedere che la propria identità, mutata dalla generazione di una nuova vita, si sviluppa secondo tappe graduali e successive. 

Solo chi ama corregge

Il discorso fin qui fatto potrebbe sembrare retorica divagazione, ma non è così perché, a ben vedere, rappresenta l’alveo nel quale si può e deve parlare di correzione sia nelle relazioni familiari– è l’indirizzo messo in luce dal brano odierno della Lettera agli Ebrei – sia in ogni altro rapporto. Gli anelli della catena che stiamo vedendo sono chiari: dall’amore si genera la relazione, dalla relazione nasce la necessità dell’educazione, dall’educazione la correzione che è sempre per la gioia piena.

Nella dinamica educativa, infatti, il fine da raggiungere è la pienezza della vita dell’altro, la realizzazione di tutte le capacità che sono insite nella persona, intelligenza, sensibilità, corporeità, attitudini, doni particolari. Si tratta della vita come termini onnicomprensivo di ogni possibilità di bene che la persona ha e può avere, attraverso un graduale sviluppo. Questo richiede prima di tutto da parte di chi educa – sia esso genitore, nella dinamica familiare, sposo/a nel rapporto matrimoniale, uomo/donna nella relazione di amicizia – la necessità di conoscere le potenzialità che l’altro ha e non solo investigare i suoi desideri perché da raggiungere non è la soddisfazione dei sogni, ma delle potenzialità che non sempre ognuno sa di avere. Lo sguardo dell’educatore deve andare quindi al di là dell’apparenza e giungere nel profondo del cuore umano, lì dove Dio ha posto i suoi doni e su questi è necessario lavorare vincendo le scorciatoie che spesso si imboccano.  Ed è proprio qui che nasce la necessità della correzione. Quando una persona si ferma ad un miraggio di bene, quando si intestardisce a perseguire una strada che è un ripiego, quando si gioca al ribasso e ci si accontenta, perché guardare lontano stanca la vista e camminare con passo veloce fa venire il fiatone, proprio allora è necessario intervenire con dolcezza e determinazione. La correzione serve per smascherare le falsità del cammino, per guardare in faccia le proprie scelte, per rinnovare l’impegno, per analizzare, facendo una sosta ed una revisione di vita con l’altro, il cammino che si sta compiendo. Correggere significa richiamare l’ideale, chiarire la meta, ricordare il traguardo, corroborare le energie, indirizzare le forze, sostenere l’impegno. Correggere vuol dire riaccendere i desideri belli del cuore, ricordare da dove e come si è partiti, vincere la stanchezza del cammino, riprendendo la retta via. Il nostro egoismo ci porta ad accomodarci, a rinunciare alle cose che veramente valgono. Correggere, in questa luce, non significa lavorare sugli atteggiamenti, ma ricordare che siamo fatti per le cose grandi e che Dio vuole da noi la docilità nel vivere con Lui l’avventura della vita. La correzione serve a perseguire il bene, a passare dal bene al meglio e dal meglio all’ottimo. Chi corregge, non dubita della buona fede – talvolta anche questa può però mancare! – perché sempre buone sono le intenzioni che ci spingono nell’azione, ma è necessario vedere se il bene che perseguiamo è il nostro vero bene, se rappresenta la strada che Dio ha tracciato per la nostra gioia. Talvolta siamo così bravi nell’illuderci e nell’indurirci che chiamiamo determinazione e volontà ferrea ciò che, in realtà, è capriccio della mente, abbaglio degli occhi, deviazione del cuore.

Da questo si comprende che la natura dell’autentica correzione è tutta al positivo perché si parte dall’amore e si persegue il vero bene dell’altro. È vero, la tristezza c’è e non si può negare. Il nostro egoismo non sopporta di essere sul tavolo degli imputati, soprattutto quando i toni non solo dolci e teneri, ci ribelliamo ed induriamo nelle nostre scelte, solo il tempo guarisce le ferite e ci convince dell’opportunità che ci è stata offerta. La correzione è una grazia, se fatta al momento. È necessario evitare di riprendere con ira perché, oltre ad essere una cattiva consigliera, fa apparire più la nostra delusione che la promozione ed il bene dell’altro che si vuol perseguire. È sempre bene domandarsi è giusto intervenire ora? Sono capace di mantenere la calma? E se parlassi più tardi? È necessario veramente un mio intervento? Solo così il nostro agire sarà volto a far crescere il rapporto, mai ad inclinarlo.

Dio ci corregge perché ci ama. Egli desidera che noi cresciamo nel bene e non ci disperdiamo Egli è il buon pastore, va alla ricerca della pecora perduta, ma, prima ancora che si smarrisca, usa il suo bastone perché nessuna si allontani dal suo gregge. Il primo frutto della correzione è l’umiltà. Chi accoglie il rimprovero, accetta il proprio errore e confessa che anche la caduta è una possibilità non tanto lontana. Ecco perché l’Apostolo ammonisce “Chi sta in piedi, stia attento a non cadere” L’umile guarda in faccia il proprio errore perché sa che Dio “resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili” e confessa: “Bene per me se sono stato umiliato, perché impari ad obbedirti”. La pedagogia di Dio, però, diversamente da quella umana usa la forza della misericordia, la determinazione della tenerezza, la volontà della pazienza. Dio non grida l’errore e l’offesa, ma l’amore che nutre per il reo; non impone la pena, ma offre egli stesso l’ammenda, come il buon Samaritano che paga il dovuto al locandiere perché l’uomo incappato nei briganti ritrovi la salute; non ama il rimprovero, ma ammonisce con la dolcezza di una madre e la fermezza di un padre; non usa la violenza per ridurre all’obbedienza, ma la forza dell’amore che genera nel cuore il desiderio della conversione.

Se riuscissimo anche noi ad avere lo stesso cuore di Dio, ad evitare le grida e a giocare di sguardi, ad amare il silenzio ed attendere i tempi opportuni! Se riuscissimo non a leccarci le piaghe che l’errore dell’altro o la disobbedienza di un figlio ha causato, ma a pensare a come deve essere guarito il suo morbo, sanata la sua ferita, accompagnato nel divenire cosciente che il vero male è quello che ha fatto a se stesso. Chi corregge – è quello che fa Dio con l’uomo – deve far trasparire nel suo intervenire che “si strugge per il peccato dell’altro”, che si dà pensiero per il bene non perseguito, la gioia non raggiunta in pienezza, il traguardo non tagliato con coraggio.

È vero la strada è sempre in salita, ma il Dio che ci corregge è quello che usa ogni strada perché, prima che venga la correzione, la sua azione sia volta alla promozione e all’accompagnamento dei suoi figli. Forse tante energie dovremmo spenderle, prima ancora che nel correggere, nell’educare e nell’accompagnarci per camminare spediti sulla via della gioia. Prevenire è meglio che curare. Anche in questo dobbiamo avere come modello l’agire di Dio nei nostri rapporti. Egli rinfranchi le nostre mani inerte e renda saldi i nostri piedi nel camminare spediti sulla strada del bene.

 




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