XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 luglio 2016
Senza amore la croce di Gesù non salva!
di fra Vincenzo Ippolito
Dobbiamo rimettere la croce al centro della nostra vita personale e familiare, come anche dell’annuncio delle nostre comunità, nella catechesi ai fanciulli e nella predicazione, chiarendo bene che per croce non si intende il solo momento della morte di Gesù, ma l’intero evento della sua Pasqua di passione, morte e resurrezione.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (6,14-18)
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.
Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio.
D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.
La scorsa domenica, seguendo la narrazione del Vangelo secondo Luca (cf. Lc 9,51-62), abbiamo contemplato la determinazione di Cristo nel procedere verso Gerusalemme e, di contro, specchiandoci in Giacomo, Giovanni e negli altri chiamati, abbiamo visto le lentezze e i limiti che scandisco il nostro cammino nella sequela di Gesù.
Spostiamo oggi la riflessione dal Vangelo alla seconda Lettura per confrontarci con l’esperienza dell’Apostolo Paolo nel cammino di sequela di cui ci ha parlato Luca la scorsa domenica. Da un lato, infatti, dobbiamo leggere e meditare il Vangelo, dall’altro è necessario conoscere i Santi perché la loro vita è il Vangelo in azione, l’uno e l‘altro sono opera dello Spirito che illumina degli uomini perché scrivano come veri autori ciò che Egli vuole far conoscere – è il caso della sacra Scrittura – e dall’altro imprime nella viva carne dei suoi eletti il marchio dell’appartenenza al Signore Gesù. Rivolgersi ai santi, invocarli come intercessori, guardare ad essi come a modelli, ascoltare l’esperienza della loro vita folgorata da Dio, avvinta da Cristo si impara in famiglia dove si scopre la chiamata alla santità e si è stimolati a corrispondere generosamente all’ideale della perfezione della carità.
Per entrare nelle Lettere di san Paolo
Già da alcune settimane stiamo leggendo passi scelti della Lettera ai Galati e questa è l’ultima domenica vista che, dalla prossima, ci verranno proposti brani tratti dall’Epistola ai Colossesi. Cerchiamo di entrare prima nel contesto generale della Lettera per poi passare al brano liturgico, nutrimento della nostra mensa domenicale.
Tra le lettere scritti da san Paolo quella ai Galati ha un carattere particolare. Non è, infatti, indirizzata ad una singola comunità, come le due Lettere ai Corinzi o la Lettera ai Romani, neppure è diretti a collaboratori dell’Apostolo – è il caso delle Epistole pastorali a Tito e le due a Timoteo – perché i cristiani a cui Paolo scrive sono gli abitanti della regione centro-settentrionale dell’Asia Minore, la Galazia (in parte, l’odierna Turchia). Secondo quanto Luca ci narra (cf. At 13,13-14,26), durante il suo primo viaggio missionario, Paolo annunciò il Vangelo insieme con Barnaba nella parte meridionale della regione e con Sila, nel suo secondo viaggio,nella parte settentrionale. Dovevano essere comunità fiorenti se in seguito l’Apostolo, prima di passare ad Efeso, farà tappa in quella regione (cf.At 18,23) ed indirizzerà un suo scritto a quei cristiani che, abbracciando la fede, riconosceranno in Cristo il volto del vero ed unico Dio.
La Lettera ai Galati, articolata in sei capitoli, è uno scritto polemico nel quale Paolo afferma a chiari toni la fondatezza del Vangelo da lui annunciato e si oppone a coloro che, nemici della croce di Cristo, seminano scompiglio nella comunità, con il riscorso alla circoncisione, travisando così la verità dell’annuncio cristiano. Dopo che nelle ultime quattro domeniche abbiamo letto vari passi di sezioni diverse dell’Epistola – Gal 1,11-19 (5 giugno); Gal 2,16.19-21 (12 giugno); Gal 3,26-29 (19 giugno); Gal 5,1.13-18 (26 giugno) – quello odierno è la parte finale (6,14-18) della Lettera (6,11-18), nella quale l’Apostolo termina l’argomentazione e si congeda dai suoi. Il tono, infatti, appare più pacato rispetto al corpo della lettera e Paolo stesso preferisce ora mostrare la sua personale esperienza di Gesù Cristo quasi a perorare la causa con il ricorso a ciò che egli vive dell’annuncio cristiano. È questo uno dei pochi casi – si possono contare sulle dita – in cui riscontriamo dei riferimenti autobiografici. L’Apostolo, infatti, annuncia Gesù Cristo e non vuole che il cuore della predicazione cristiana venga messa in ombra da riferimenti personali. Se poi talvolta parla di sé, non è certo per attirare l’attenzione sulla sua persona, ma su quanto la grazia del Signore ha compiuto in lui. È questa la chiave di lettera della nostra pericope, altrimenti non riusciamo a comprendere la ricchezza dell’argomentazione paolina.
Consapevoli del dono che siamo e che gli altri sono
Mentre alcuni falsi discepoli traggono vanto dalla pratica della legge e dalle opere esteriori (cf. Gal 6,12-13), Paolo confessa il suo radicamento nella croce del Signore. È questa, infatti, la sorgente del vanto cristiano perché fuori dal mistero di Cristo morto e risorto per noi nulla ha senso. L’opposizione che l’Apostolo crea è allora tra l’autoglorificazione e la gloria che nasce dalla croce, tra l’autoesaltazione e la signoria di Cristo, tra il secondo gli uomini (Gal 1,1) e il secondo Dio, è la guerra tra l’egocentrismo della vita ed il cristocentrismo della fede. L’Apostolo nota – è quello che biasima aspramente nelle chiese della Galizia – che si può vivere la fede e dirsi discepoli di Cristo e seguire la propria volontà, credersi giusti perché si compiono delle opere e sentirsi perfetti, come il fariseo del Vangelo. La fede, invece, è l’affermazione del primato di Dio nella propria vita, è Lui che ci rende giusti, non imputando a noi le nostre colpe (cf. 2Cor 5,19), condonando i debiti con Lui contratti per le opere da noi compiute. Affermare il primato della fede significa dichiarare la propria dipendenza da Dio che è il Signore. Nella fede noi accogliamo Dio come nostro Signore, confessiamo la nostra creaturalità ed il limite che scandisce l’umana esistenza, rendendoci conto che, come affermava san Francesco d’Assisi, solo Lui è autore di ogni bene e che a noi appartengono solo i vizi ed i peccati. Ecco perché nella vita cristiana il rinnegamento del proprio io è la strada maestra per un cammino di vita nuova, perché vuol dire spogliarsi di ogni egoistica ed autoreferenziale pretesa ed affidarsi completamente a Dio. Di che cosa possiamo vantarci? Tutto viene da Dio, è suo dono e tutto ciò che abbiamo ci è stato generosamente elargito perché gli uomini, vedendo la luce di Cristo che in noi risplende, diano gloria al Padre che è nei cieli. Per questo Paolo chiede “Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7).
Viviamo completamente immersi nel dono di Dio, tutto è dono, sua grazia e sua delicatezza, ogni cosa è segno della sua tenerezza e provvidenza. Quando io mi approprio di qualcosa, arrogo a me un bene che non mi appartiene perché l’uomo è collaboratore della creazione, non suo autore. Siamo, infatti, chiamati a vivere e ad accoglierci come dono, a custodire e a custodirci secondo Dio, nella sua misericordia. È la dinamica della gratuità che nasce dalla consapevolezza del dono che sono per me stesso e per gli altri e del dono che l’altro è per sé e per me. Quando io non percepisco questo, ovvero dimentico il primato di Dio, il suo elargire l’essere ed il bene, quando non mi avverto come dono e non vedo il bene che l’altro è e fa per me e che tale bene non è da me minimamente meritato, prendo il posto di Dio, mi faccio padrone di me stesso e degli altri e gestisco a parer mio tutto ciò che è intorno a me. Così facendo sono convinto di essere il centro dell’universo, come il sole, mentre gli altri sono i pianeti che mi girano intorno. Il mio vantarmi è vuoto ed insignificante perché io non sono il sole e ciò che faccio è opera di Dio in me. Allora perché appropriarmene? La povertà evangelica è non solo riconoscimento della propria creaturale dipendenza e palese manifestazione della riconciliazione con la propria natura scandita dal limite, ma è capacità di vivere del dono che il Signore elargisce, utilizzando tutto – è l’uso povero delle cose caro alla tradizione francescana – nella lode e nel riconoscimento di Dio che è il grande Elemosiniere, come dice santa Chiara.
Io sono un dono per me stesso e per gli altri. Sono prezioso agli occhi di Dio e lo devo essere anche ai miei occhi, perché Dio si fida di me, mi affida la mia vita, mi reputa capace di realizzare il suo progetto. Riconoscere il dono del Signore è un quotidiano esercizio anche per le nostre famiglie e comunità perché non è scontato che tutto venga da Dio. Spesso i nostri occhi, vedono senza guadare e le nostre mani prendono, senza avvertire la gratuità del dono, ma la sete del possesso e della strumentalizzazione di ciò che si ha. Quando in una famiglia ci si percepisce dono di Dio, la vita diventa un continuo rendimento di grazie, perché ciò che io ho non è stato da me meritato, ma un dono della misericordia di Dio. La sposa è un dono per lo sposo come lo sposo lo è per la sposa ed i figli per entrambi. Quando il tarlo dell’appropriazione rode la consapevolezza del dono, quando le mani si chiudono nel gesto di chi stringe per avere e pretendere, non di chi apre per condividere, allora la vita familiare perde di bellezza, il canto della lode si interrompe e ciascuno persegue il proprio egoistico interesse. Proprio da questa impostazione che non ha nulla a che vedere con i trentatré anni della vita di Cristo sulla terra cerca di porre un argine Paolo con il suo scritto.
Dall’autoreferenzialità alla fede in Gesù Cristo
È significativo il tono solenne – “quanto a me”, v. 14 – con cui la pericope odierna inizia. Sembra che Paolo voglia presentare la sua testimonianza con la schiettezza di chi altrove dirà “so a chi ho dato la mia fiducia” (1Tim 2,12). Egli che ai Romani scrive: “Non mi vergogno del Vangelo perché è potenza di Dio” (Rm 1,16), sa che la parola da lui annunciata non è a misura d’uomo (Gal 1,11) e neppure gli è stata donata da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal 1,12). Volendo tradurre “quanto a me” potremmo anche dire, «per quanto mi riguarda», «circa la mia vita, opposta a quella di chi trae vanto da se stessi», la croce è la mia gloria e poiché “Chi si vanta, si vanti nel Signore” (1Cor 1,31), solo nel mio Signore crocifisso posso vantarmi. L’uomo che, incontrato Gesù, trova in Lui la ricchezza della grazia e della salvezza del Padre, sperimenta nella sua croce la massima espressione di ciò che Dio è ed opera nell’umanità del suo Figlio. Affidandoci al mistero della Pasqua di Gesù, egli trova in essa il suo vanto, ovvero la possibilità di dare a Dio ciò che è di Dio – Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori (cf. Tim 1,16) – e all’uomo ciò che è dell’uomo – e dei peccatori il primo sono io (cf. Tim 1,16) – risanando lo squilibrio causato dalla disobbedienza di Adamo ed Eva. Spostando l’asse di attenzione da me a Cristo, si accoglie la giustizia che il sacrificio della sua croce ci ha procurato, si fa morire il proprio egoismo, l’uomo vecchio che continuamente recalcitra in noi e, nella fede, ci si affida completamente a Dio. Non mi vanterò di quella che faccio io, ma di ciò che ha fatto Cristo per me. La forza della fede sta nel credere alla potenza dell’amore di Dio che opera in me quello che io non riesco neppure ad immaginare e che le mie azioni non possono minimamente meritare. Paolo sa di potersi vantare, alla maniera umana solamente della sua sola debolezza (cf. 2Cor 12,9) perché luogo dove la grazia di Cristo si manifesta in pienezza, senza che l’uomo possa mettervi impedimenti. Ecco perché ai Galati l’Apostolo lega in maniera indissolubile la croce di Gesù Cristo al vanto del discepolo, quasi a dire che l’unico ambito nel quale il cristiano può manifestare stupore e compiacimento è il mistero del Cristo crocifisso. Scompare ogni egoistica autogratificazione – è questo il significato di gloria e di vanto secondo le categorie umane, come alcuni dei Galati volevano e perseguivano – e c’è solo posto per Dio e per la sua grazia, per il suo disegno di salvezza che sbaraglia ogni pretestuoso desiderio umano.
La centralità della croce nella vita e nella predicazione dell’Apostolo è bene attestata nell’Epistolario paolino. Scrivendo ai Corinzi egli afferma che, mandato a predicare il Vangelo (1Cor 1,17), conosce solo la sapienza della croce, “Cristo e questi crocifisso” (1Cor 2,2) perché è lui la potenza di Dio, mentre scrivendo ai Galati dice “Sono stato crocifisso con Cristo” (Gal 2,19). Da questo comprendiamo quanto la Pasqua del Signore sia imprescindibile nell’esperienza cristiana. Nel battesimo siamo stati immersi nella sua morte perché anche la sua vita sia manifesta in noi e consepolti con Lui abbiamo in noi la caparra dello Spirito che ci rende figli ed eredi con Cristo del Regno del Padre.
Per la mentalità umana – Paolo direbbe carnale, ovvero autoreferenziale ed egoistica – parlare della croce come motivo di gloria e di vanto può sembrare assurdo, ma non è forse questo che Gesù chiede ai suoi discepoli nel Vangelo? “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”? E quando molti si allontanarono da Lui per la durezza del suo parlare, il Maestro, rivolgendosi ai suoi, non chiede: “Volete andarvene anche voi?”. È la croce il cuore della predicazione cristiana, ma non la croce intesa come sofferenza e dolore, violenza ed angoscia, solitudine e morte, ma quale manifestazione tangibile ed inequivocabile dell’amore di Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. La croce è sorgente di vita e nella croce il cristiano sa di trovare l’unico senso della sua esistenza e del suo essere mendicante dell’Assoluto, pellegrino di significato, viandante di misericordia, errante nella continua ricerca di una dimora stabile dove porre il suo capo. Mentre alcuni cercano il proprio vanto in segni che gli uomini stessi imprimono nella carne, quali la circoncisione (cf. Gal 6,13), l’Apostolo affermando il primato della fede assicura l’esistenza di una strada maestra data dalla partecipazione nel proprio corpo alla passione di Gesù. Sono questi i veri segni di onore del cristiano perché, impressi dallo Spirito, sono il frutto maturo della conformazione a Cristo Signore. Vantarsi della croce significa andare al centro senza perdersi in mille rivoli. Anche alla comunità di Corinto l’Apostolo sarà costretto a fare un discorso analogo (cf. 1Cor 1,18-31). Bramosi dei doni straordinari dello Spirito, portati fuori strada da predicatori itineranti, hanno svuotato la croce del suo significato salvifico (cf. 1Cor 1,17). Ecco dove nasce la strenua difesa di quella parola che della croce è il frutto maturo e che, sapienza e potenza di Dio, dona la salvezza operata da Cristo crocifisso. La parola della predicazione, se accolta, dona la redenzione che l’evento della Pasqua ha prodotto. La parola riattualizza l’evento e la predicazione dona la purificazione e la vita nuova che l’evento del Dio crocifisso ha portato al mondo. Perché allora allontanare la croce se rende tangibile l’evento? Perché accantonarla nella vita e nell’annuncio se tutta la salvezza è il frutto della volontà di Gesù di donarsi fino all’ultima goccia del suo sangue?
La vita cristiana, come anche la nostra testimonianza non può prescindere dal mistero della croce, espressione massina dell’amore di Dio per l’uomo. Difatti, la croce è la porta stretta, chi vi passa trova pascolo in abbondanza, è il legno della vita, chi cerca tra le sue fronte, trova frutti gustosissimi, è la sorgente dell’acqua viva, se, come Mosè, percuoti la roccia del cuore del Crocifisso, scende acqua a ruscelli e vieni purificato da ogni colpa, rinnovellato nel tuo essere perché lo Spirito che sgorga dal Costato di Cristo fa nuove tutte le cose. La croce è la tavola della legge nuova, chi legge in essa non resta confuso, è la verga di Aronne che, unica, fiorisce e indica l’eletto di Dio, la croce è il talamo regale, dove la sposa appartiene per sempre al suo Sposo, è la terra promessa, chi vi entra trova l’abbondanza di ogni divina ricchezza.
Dobbiamo rimettere la croce al centro della nostra vita personale e familiare, come anche dell’annuncio delle nostre comunità, nella catechesi ai fanciulli e nella predicazione, chiarendo bene che per croce non si intende il solo momento della morte di Gesù, ma l’intero evento della sua Pasqua di passione, morte e resurrezione. Non possiamo incappare nel pericolo di rendere meno incisiva la nostra testimonianza, edulcorando l’annuncio o, ancor peggio, svuotandola parola della croce della potenza e sapienza divina che trasmette. Della croce è necessario comprendere l’amore che conduce al dono, perché senza amore la croce di Gesù non salva, senza la sua volontà oblativa la croce non redime, senza la sua totale consegna non redime e la differenza tra la morte di Cristo e quella dei suoi due compagni di sventura non esiste.
Continuamente ci troviamo ad un bivio nella nostra vita, ogni giorno ci è messa dinanzi la via di Dio e quella mondo, la strada di Cristo e quella di Satana, la salita dell’amore oblativo e la discesa ripida dell’egoismo smoderato e irrefrenabile. Il matrimonio come sacramento è il luogo dove l’amore di un uomo e di una donna si rifà Gesù come a modello, ricevendo la grazia dello Spirito-amore, gli sposi si incamminano sulla strada che il Signore ha percorso in obbedienza al Padre. La dinamica della Pasqua di Gesù deve scandire la vita della famiglia costruita su Cristo perché tutti siamo chiamati a gloriarci della sua croce, ovvero a vivere di Lui e per Lui, crocifisso e risorto per la nostra salvezza. Gloriarsi della croce significa vivere nella propria carne la sua dinamica pasquale, vuol dire non lamentarsi delle offese ricevute, delle mortificazioni subite, delle umiliazioni sofferte. Gloriarsi della croce di Gesù significa rimettere tutto nelle mani di Dio, confidare in Lui, abbandonare ogni pensiero sapendo che Dio è per noi provvidenza, che siamo preziosi ai suoi occhi, che Egli ha tatuato il nostro nome sulle palme delle sue mani. In famiglia, gloriarsi della croce significa accogliere il limite proprio ed altrui, guardare al Crocifisso nelle alterne situazioni della vita, affidare nella preghiera ogni nostro desiderio al Padre, abbandonare ogni egoistica pretesa di avere la meglio. Il nostro vanto è la partecipazione alla croce di Gesù? Ci rallegriamo delle difficoltà sofferte per Cristo? Accogliamo la nostra creaturale debolezza perché in essa si riveli la potenza di Gesù salvatore? Ricerco la gloria del mondo o quella che viene da Dio e che passa attraverso la croce?
La novità di vita del Risorto: portare le sue piaghe
La luce della Pasqua di Gesù dona un senso nuovo alla vita di ogni discepolo, perché lo proietta nell’universo di Dio e della sua volontà. La croce, infatti, manifesta come Dio intervenga in maniera paradossale lì dove per l’uomo tutto termina, mentre per l’amore del Padre tutto inizia. Per mostrare quanto il mistero pasquale determini la vita cristiana, Paolo parla di stigmate impresse nel suo corpo (cf. Gal 6,17), con una immagine particolarmente evocativa per noi che abbiamo conosciuto santi che, per singolarissimo privilegio, hanno partecipato in modo tangibile alla passione del Signore. Contro coloro che credono nella pratica della circoncisione e la consigliano ai fratelli nella fede, vanificando la potenza della redenzione di Cristo, Paolo oppone segni di ben diversa fattura – le stimmate appunto – che rappresentano i veri monili che il cristiano deve vantare. Non segni nella carne – la circoncisione – ma nel cuore – già nell’Antico Testamento si parlava della necessità della circoncisione del cuore – quasi a dire che la croce di Cristo è un segno così vivo nella vita che determina un totale cambiamento della persona. Ecco perché Paolo potrà dire “portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2Cor 4,9). La Pasqua del Signore è un dato imprescindibile nell’esperienza cristiana. Nel battesimo siamo stati immersi nella sua morte, crocifissi con Lui per camminare in una vita nuova (cf. Rm 8,4ss); per la potenza del Risorto, abbiamo in noi l’unzione, il sigillo, la caparra dello Spirito (cf. 2Cor 1,21-22) che ci rende figli ed eredi con Cristo del Regno del Padre.
Segnati non nella carne, ma nel cuore, non una partecipazione esteriore alla passione di Cristo, ma interiormente tatuati nell’appartenenza a Cristo Signore: questo significa che il mutamento che lo Spirito di Cristo opera nel credente, determinando quella che Paolo definisce “essere nuova creatura” (Gal 6,15), conforme a Gesù. Il fine della vita cristiana è la conformazione al Figlio – che possiamo anche definire figliolanza divina, divenire figli per adozione – a cui siamo da sempre stati predestinati (cf. Rm 8,28-30). E la conformazione a Gesù non è un fatto esteriore, ma riguarda i sentimenti del proprio cuore, il sentire che Paolo richiede ai Filippesi “Abbiate in voi gli stesi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Essere cristiani significa guardare verso Gesù crocifisso per avere, nella forza del suo Spirito, la grazia di vivere come Lui. È questo il segreto della vita di Paolo, essere imitatore di Cristo e lasciare che lo Spirito ci renda come Lui, perfetti nell’amore, protesi al servizio dei fratelli, pronti a fare ciò che piace al Padre.
Ogni dono perfetto che scende dal Padre della luce passa per la croce, che rappresenta il catalizzatore attraverso il quale viene effusa dal Padre l’onnipotenza della sua misericordia e la grazia del suo perdono. Gesù, volto della misericordia del Padre, sempre ama e guarisce, risana e riconcilia, ma è nella croce che si ha la massima espressione di ciò che Egli è – Figlio del Padre – e di quanto è capace di fare per gli uomini – renderli figli con il dono del suo Spirito – perché il mondo trovi la vita nel suo nome.
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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).
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