Adozione

“Il mio utero non vi ha generati, ma non per questo vi ho meno amati”

adozione

di Marina Bicchiega

Tre storie, tre famiglie. La diagnosi di sterilità. Il dolore, l’angoscia, e poi finalmente la luce…e la gioia dell’adozione.

Lucia e Simone (i nomi sono di fantasia), trascorrono i primi anni di matrimonio nell’aspettativa di una gravidanza che però non arriva. Il dubbio di una patologia inizia a insinuarsi e lentamente logora gli equilibri di coppia: «Dopo un‘operazione a fini diagnostici ci fu formulata una spietata “sentenza” di sterilità che dicevano superabile, forse, con tecniche FIVET o ICSI». Questa situazione, racconta Lucia, «è pesata drammaticamente sul nostro rapporto». Mentre lei cercava di concepire un figlio si accorge che deve ritrovare suo marito: «C’era da ricostruire il nostro amore seriamente messo alla prova, da risolvere difficoltà di comunicazione che erano intervenute mettendo in discussione persino le nostre promesse». Si fidano della voce della Chiesa e rifiutano l’iter della provetta: «la scelta non è stata facile» anche perché si ritrovano in mezzo ad amici, segnati dallo stesso destino, che invece percorrono l’altro itinerario «e che al momento ci appariva un’allettante scorciatoia». I due mantengono la fiducia «che persino le crisi possano essere principio di rinascita e la certezza che non c’è morte senza Resurrezione». Si rialzano, con buona dose di fatica: «Abbiamo percorso tutta la strada della guarigione rielaborando il nostro dolore. La vita e l’amore che abbiamo dentro non possono non generare altra vita, anche se i tempi e i modi possono essere diversi da quelli che pensavamo all’inizio perché sono i tempi dell’adozione. Passata la tempesta ci ritroviamo più forti, consapevoli e innamorati. I figli che ci saranno donati cresceranno nutrendosi del nostro stesso amore rigenerato». Oggi Lucia e Simone sono felici genitori adottivi.

Anche Marta e Antonio dopo due anni di matrimonio si ritrovano con accertamenti non buoni: «è stato un trauma, non riuscivamo a crederci». Loro accettano la proposta della fecondazione in vitro: «non c’era tempo per avere dubbi». Alle iniezioni di gonadotropine seguono continue trasferte per i controlli in ospedale: «ero comunque fortunata, avevo tempo e disponibilità economiche per poterlo fare. Abbiamo speso migliaia di euro. Alla fine della stimolazione ormonale le mie ovaie avevano prodotto 16 ovuli! Una donna non li produce neanche in un anno. Non avevo più forze, sentivo un gran dolore all’addome e le punture mi avevano provocato ematomi sulla pancia. Intanto mi domandavo se un bambino potesse venire al mondo così. Avevo sempre creduto che fosse il frutto della gioia e dell’amore e non di un laboratorio». Il trasferimento degli embrioni non ha effetto e i due rinunciano a un secondo tentativo. Sentono parlare del metodo Billings e arrivano a Casa Betlemme: «Ho imparato a cogliere tutti quei segnali che il mio corpo mi dava ma che nessuno fino ad allora mi aveva insegnato a comprendere». Ritrovano serenità e intimità, vengono orientati a tecniche di cura dell’infertilità e intanto avviano le pratiche al Tribunale per i minori. Arriva l’adozione: «Conoscere e stare con il nostro bambino è stato come vivere una nuova vita, come se tutto quello successo prima non fosse mai accaduto». Un pensiero anche per la mamma naturale di loro figlio: «Non potremo mai sapere il motivo, ma qualunque sia stato, ha permesso alla nostra creatura di avere un’altra possibilità. Anche questo è stato un atto d’amore». Oggi, raccontano, «il dolore e la rabbia non ci sono più, l’amore ha prevalso e il frutto di così tanto amore ha generato una nuova vita»: è giunta in dono, infatti, un’ inaspettata gravidanza.

Anche Pamela e Daniele approdano con il loro calvario alla scuola di Casa Betlemme: «Abbiamo passato anni da una clinica all’altra. In quei corridoi dividevamo lo stesso destino con tante coppie chiuse dentro il loro dolore». Quante cose potrei raccontare, dice lei, «sulle modalità di svolgere gli esami. Umiliarono così tanto mio marito che era sempre più chiara la consapevolezza di un’altra via tracciata da Dio per noi». Anch’essi maturano la scelta dell’adozione e, abbracciando la loro bambina, arrivano a «benedire quella sterilità». Molte altre sono le storie luminose che Flora Gualdani conserva nel suo “confessionale ostetrico”. Tra fede e ragione, il suo stile ci riporta alla sapienza di Dio, “Ecce, concipies in utero”: «le parole dell’evangelista Luca, medico, suonano come un richiamo preciso all’uomo post moderno che considera normale concepire figli in provetta». Quando gli aiuti non bastano e la natura dice “no”, sottolinea l’ostetrica toscana, «invece che far violenza alle sue leggi esiste un’alternativa: la maternità adottiva e affidataria. Gli sposi qui non delegano alle mani di un tecnico il loro atto coniugale. Ed è una strada che non sacrifica esseri umani in nome dei desideri degli adulti ma, al contrario, restituisce calore a piccoli innocenti che esistono già e che aspettano di essere amati da un padre ed una madre». Le riflessioni di Flora sono il frutto di una personale esperienza sul campo, lunga ormai mezzo secolo. La ritroviamo distillata in forma poetica così, in uno dei suoi scritti: “…di voi posso dirmi mamma./ Il mio utero non vi ha generati,/ ma non per questo vi ho meno amati…”.




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