IV Domenica del T. O. – Anno C

Chi ci insegna l’arte dell’amore?

di fra Vincenzo Ippolito

Ai genitori ed educatori nella fede sembra rivolgersi la dinamica che Paolo presenta con una disarmante semplicità. Siamo chiamati ad insegnare l’arte del sublime e a spingere gli uomini a tenere fisso lo sguardo sulle vie che meglio aiutano l’uomo ad essere se stesso, a lavorare sulla propria interiorità perché nel terreno del cuore fiorisca il vero bene.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1 Cor 12,31-13,13)

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.

Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!


 Il commento

Ogni domenica la Chiesa imbandisce per noi due mense, la prima della Parola e l’altra dell’Eucaristia, perché il discepolo di Cristo ascolti Dio e accolga la grazia divina che abita e trasforma la nostra vita, come il pane che, sull’altare, diviene il suo Corpo spezzato per noi. A queste due mense, così intimamente unite, nutriamo la nostra fede e riceviamo la forza divina perché la nostra testimonianza nella storia sia significativa ed incisiva. Non sempre però riusciamo a portare con noi, come le vergini sagge (cf. Mt 25), tutta la ricchezza che Dio ci dona nei piccoli e deboli vasi della nostra esistenza. L’attenzione si ferma su pochi aspetti della liturgia, mentre tanti passano sotto silenzio, come da una tavola riccamente imbandita prendiamo ciò che più ci piace e ci attira.

In questa domenica, mentre il Vangelo (cf. Lc 4,21-30) continua la narrazione di quella passata (cf. Lc 4,14-21) – Gesù è ancora nella sinagoga di Nazaret e fa esperienza del rifiuto da parte dei suoi concittadini – noi fermiamo la nostra attenzione sulla seconda Lettura tratta dalla Prima Lettera ai Corinzi. In realtà, già da alcune domeniche l’Apostolo sta arricchendo la nostra mensa domenicale. Oggi, perché la tematica sviluppata dall’Apostolo è la carità – non vi poteva essere migliore sintonia con il giubileo straordinario della misericordia – gustiamo quanto san Paolo trasmette ai suoi, quale sintesi del messaggio evangelico. Gustiamo – è questo uno dei verbi che meglio indica il nostro nutrirci della Parola – poiché, come dice il salmista, essa “è più dolce del miele e di un favo stillante” (Sal 19)

Togliersi i sandali come Mosè, per comprendere la Scrittura

Le Lettere di Paolo sono scritti diversi rispetto ai Vangeli. Mentre questi raccolgono le memoria di “coloro che fin dall’inizio furono testimoni oculari e ministri della parola” (Lc 1,2) – è quanto abbiamo letto e meditato la scorsa domenica – le Epistole o Lettere, invece, ci trasmettono il vissuto delle primitive comunità cristiane e il ministero pastorale degli Apostoli che accompagna la crescita nella fede dei credenti. In maniera più chiara, possiamo dire che mentre i Vangeli trasmettono il kérygma, ovvero l’annuncio di Cristo morto e risorto per noi, nucleo primordiale e principale dell’annuncio cristiano che fa nascere la fede come adesione a Cristo, le Lettere paoline ed apostoliche sono finalizzate, invece, ad accompagnare lo sviluppo della fede. Per questo motivo nel Canone dei Libri ispirati che troviamo nell’indice delle nostre Bibbie, abbiamo prima i Vangeli e poi le Epistole, ovvero prima gli Scritti che fanno nascere la fede nel cuore degli uomini, poi quelli che ne corroborano lo sviluppo. Da questo si comprende che le opere di Paolo, Pietro, Giacomo, Giuda e Giovanni – noi conosciamo soprattutto le epistole paoline, ma non è l’unico ad aver adoperato questo genere letterario in uso già nel mondo antico! – vanno lette diversamente dai Vangeli e, proprio perché non si tratta di racconti, ma di lettere le chiavi interpretative sono differenti.

Da questo comprendiamo come è fondamentale un approfondimento della Parola di Dio sia perché “l’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo”, come dice san Girolamo, sia anche perché, mancando una conoscenza pur minima della Bibbia è quasi impossibile inoltrarsi nella foresta dei Libri ispirati. È una questione vitale, come può nutrirsi di Parola divina nella preghiera e tradurla in vita chi, del Vangelo e delle Epistole, dei Profeti e dei Salmi, non ne conosce i rudimenti? Come dialogare con Dio da amici intimi se la conoscenza dei sacri Testi non alimenta il dialogo con Lui? Come può la mia vita essere trasformata dal fuoco dello Spirito senza che, unitamente ai sacramenti e ai canali di grazia che il Signore mi dona, non attingo da quelle Pagine che grondano di Spirito e vita la forza della trasformazione che l’Amore divino largamente elargisce?

Camminare nella carità

Corinto è una delle più importanti città commerciali della Grecia, centro cosmopolita di incontro tra diverse culture, greco-romana, asiatica ed africana. Paolo vi giunge da Atene nel suo secondo viaggio, stando alle indicazioni degli Atti degli Apostoli (cf. 18,1-17), lavora con le proprie mani ed annuncia il Vangelo, soggiornandovi per circa un anno e mezzo. Una volta partito da Corinto, la comunità attraversa non poche difficoltà. L’Apostolo si trova ad Efeso quando ne viene a conoscenza (cf. 1Cor 1,11) e mette mano alla penna e al calamaio perché la sua voce autorevole aiuti nella prova, chiarisca la meta da raggiungere, porti a confidare sempre e solo nella potenza della croce di Cristo.

Gli studiosi dividono i quindici capitoli che tradizionalmente formano l’epistola in tre sezioni (1Cor 1-6: divisioni e scandali; 1Cor 7-14: Problemi emergenti; 1Cor 15: la fede nella resurrezione). Alla seconda – ovvero a 1Cor 7-14, appartiene la pericope dell’odierna liturgia (cf. 1Cor 12,31-13,13), parte integrante del discorso sui carismi. Se i doni di Dio sono per l’unità dell’intero corpo di Cristo, non bisogna dimenticare, sembra dire Paolo, che la carità è la regina dei carismi, il carisma dei carismi, il segno più eloquente della presenza e dell’azione di Dio nell’uomo. Qui, incastonato come una gemma preziosa, troviamo il brano che viene solitamente considerato l’inno alla carità, il più conosciuto ed amato dell’intero epistolario paolino.

La Chiesa, sapientemente, per meglio legare il brano al suo contesto prossimo, ci fa leggere l’ultimo versetto del capitolo dodicesimo, che rappresenta poi la chiave interpretativa dello stesso inno, al capitolo tredicesimo, tutto dedicato alla carità. Nella lettura liturgica l’incipit “Desiderate intensamente i carismi più grandi” (1Cor 12,31) non solo è solenne perché dona il tono a quanto segue, generando il patos nei lettori, ma in un certo senso determina quel significativo passaggio di attenzione dalla molteplicità dei carismi che lo Spirito suscita a quell’unico dono del Paraclito che più conta nell’esistenza cristiana. L’Apostolo dice “Desiderate intensamente”. La traduzione del testo CEI rende bene l’originale greco. A Corinto i cristiani ambivano doni straordinari dello Spirito, ma non solo Paolo non asseconda questa ricerca, quanto la contrasta presentando prima la parola della croce (cf. 1Cor 1,18-31) unica sapienza di Dio per il mondo, in seguito indicando nella carità, ovvero nella vita di Cristo in noi, la nota dominante l’esistenza cristiana. “Desiderate intensamente” significa che l’aspirazione più alta del cristiano non deve risiedere nella ricerca spasmodica dell’apparenza e di ciò che il Signore opera in maniera visibile nella vita. Questi sono i desideri carnali che, dice sempre san Paolo, fanno guerra ai desideri dello Spirito. Il discepolo di Cristo è chiamato ad andare all’essenziale, a perseguire ciò che più conta, a non fermarsi al luccichio delle cose che passano, poiché, è sempre san Paolo a dirlo “passa la scena di questo mondo”.

Può sembrare strano, ma la tentazione dell’apparenza e dell’efficientismo è assai presente tanto nella comunità credente, come anche nella famiglia e tra le famiglie. Paolo sta indirettamente chiedendo di iniziare un serio discernimento sui desideri del cuore e su ciò che veramente ricerchiamo. “Desiderate intensamente”. Ciò che conta, che resta, che vale nella vita, deve essere ricercato con intensità e passione, con trasporto e determinazione, con volontà, entusiasmo e coraggio. Quante volte nella vita insieme ci si accontenta, nelle amicizie ci si sopporta, nelle relazioni si è passivi? È necessario che vi sia invece la ricerca del vero, del bene e del bello più grande. C’è un di più da perseguire, un più grande da costruire, un meglio da ricercare. Perché allora ci fermiamo nella corsa? Perché ci accontentiamo nella vita? Perché non riusciamo a vincere l’apatia, la stanchezza, la noia, non tenendo in alto lo sguardo? Aspirare, desiderare intensamente significa non fermarsi, non lasciarsi abbattere, non permettere al Nemico di prevalere su di noi e vincere il mistero della nostra debolezza. Ci sono doni più grandi, mete più belle, conquiste più significative, orizzonti più ampi a cui giungere. Ecco perché il salmista canta “Voglio svegliare l’aurora” e si strugge “di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della vita”. Si tratta dei desideri più grandi che è necessario perseguire.

Dobbiamo finirla di piangere sul latte versato e scrollarci di dosso una buona volta questa vita che non è vita o almeno che non è lo come potrebbe esserlo. È venuto il tempo di fare – lo diceva Giovani XXIII aprendo il Concilio – di fare “un balzo in avanti”. Dobbiamo saltare dal bene al meglio e dal meglio all’ottimo. Questo significa desiderare intensamente i carismi più grandi. È giunto il momento che la famiglia cristiana divenga consapevole della ricchezza di umanità che sono chiamate ad infondere nella società degli uomini, nelle istituzioni civili. È necessaria la rifioritura di una classe politica che punti non all’accontentare ed ammorbidire forze contrarie, ma che ricerchi ciò che è più grande, ciò che più conta, ovvero la verità, il bene ed il bello che Dio da sempre ha messo nel nostro cuore come promessa di bene.

Perseguire questo di più è una esigenza impellente soprattutto nell’educazione alla fede nelle mura domestiche perché lì e non al catechismo – come possa incidere la catechesi parrocchiale di breve durata su una settimana spasmodica dove i fanciulli sono come tante trottole resta un mistero! – essi guardano i loro genitori e apprendono dai loro gesti e dalle loro parole. Dobbiamo fare di più con i nostri figli, puntare più in alto. Pensiamo mai di studiare insieme la Bibbia, leggerne una pagina al giorno, iniziare una ricerca per approfondire insieme un personaggio? Fino a quando i genitori non comprenderanno il loro delicato compito di educatori nella fede dei figli, non potremo dire di aver risolto l’ignoranza religiosa delle nuove generazioni a cui le buone iniziative ecclesiali non riusciranno a porre limiti se non in parte. Se si può fare di più, è giunto il tempo di farlo!

Indicare ciò che più conta

L’apostolo Paolo, come ogni testimone ed educatore nella fede, è un a freccia puntata verso Cristo ed il suo Vangelo, sa di essere chiamato da Dio ad indicare la strada e percorrerla per primo, e di buon grado si pone innanzi al suo gregge perché i cristiani che da lui hanno ricevuto l’annuncio di salvezza divengano suoi imitatori come lui lo è di Cristo (cf. 1Cor). Suo compito è spingere i fratelli ad obbedire a Gesù Cristo e alla sua parola, mai ad imboccare strade alternative di gioia fatua, di felicità passeggere.

L’Apostolo sa di avere Cristo, anzi di essere da Lui posseduto. Più volte nelle sue Epistole, spinto dalla foga del discorso e dal bene dei suoi interlocutori, mai dalla volontà di primeggiare, confessa la sua profonda ed intima comunione con il Signore Gesù. “Anch’io sono stato conquistato da Cristo” dice ai Corinzi, quasi con un filo di voce, e vinto dall’amore del suo Signore confida poi “l’amore di Cristo ci spinge” (2Cor). È l’amore che sovrabbonda in lui se, dimentico di tutto, gioisce delle sue sofferenze e sente di portare con sé le stimmate di Cristo. La comunione con il suo Signore lo porta a dire “Vivo non io, in me vive Cristo”, perché, alla scuola della sapienza della croce per lui “il vivere è Cristo ed il morire un guadagno”. Questo intenso vissuto di amicizia e di familiarità intima con Cristo lo porta a dire con autorevolezza ed autorità “vi mostro una via più sublime” (v. 31). L’amore è l’arte del sublime, chi vive d’amore vive del sentimento che, tra tutti, rende l’uomo in atto ciò che egli già è in potenza. Il passaggio dalla possibilità alla realtà, dalla potenza all’atto è proprio dell’amore.

 

Conoscere l’arte dell’amore è proprio dei figli di Dio, di coloro che vivono in Cristo – se uno è in Cristo è una creatura nuova – che praticano la pienezza della legge – pieno compimento della legge è l’amore – e nella relazione lasciano che il bene dell’altro prevalga sempre – non abbiate nessun debito con nessuno se non quello di un amore vicendevole – perché l’uomo sia ciò che è chiamato ad essere, secondo il progetto di Dio. L’Apostolo non ha paura di mostrarsi conoscitore di questa difficile e semplice arte. L’amore è semplice perché è il sentimento che è iscritto nelle fibre del nostro essere, amore ricevuto e amore donato; al tempo stesso, però, è difficile, perché staccarsi dall’egoismo e vivere della gratuità e della dimenticanza di sé che l’amore vero comporta è per le anime grandi, che non si lasciano vincere dalla passione del proprio io, ma guidano, con le briglia di una ragione illuminata dalla fede, gli istinti naturali che continuamente recalcitrano.

Paolo sa che è necessario avere un maestro nella via di Dio, altrimenti si rischia di andare fuori strada. Egli stesso lo ha avuto in giovane età, Gamaliele lo ha educato nella Legge dei padri e, dopo l’evento di Damasco, Anania, gli è stato posto accanto dalla Provvidenza perché, recuperando la vista, potesse beneficiare della luce della fede. L’Apostolo sa di essere padre – sono io che vi ho generati nella fede – sa che nessuno potrà sostituire la sua presenza e soppiantare la sua parola – potreste aveva mille pedagoghi in Cristo, ma non molti padri – perché nessuno ha vissuto le doglie di quel parto spirituale – “che io dunque partorisca nel dolore perché Cristo sia generato in voi” – che conduce i credenti alla generazione del Cristo. Paolo è padre e lui solo può sapere ciò che è necessario per il cammino di fede delle sue comunità. La paternità, nella carne e nello spirito, conduce a sapere ciò di cui l’altro ha veramente bisogno anche se questi manca di consapevolezza e crede di dover prendere altre strade. È l’eterna lotta tra generazioni, i giovani presumono di sapere e si ribellano, gli adulti vorrebbero donare la propria esperienza e non ci riescono. Paolo conosce “la via più sublime” e la può mostrare.

 

Dove si impara l’arte del sublime, l’arte dell’amore, se non da Colui che del sublime è la fonte, anzi il sublime stesso, pienezza di vita e circolarità d’amore? Esiste una via del sublime che è quella di Cristo, la via amoris di cui i cristiani dovrebbero essere esperti. Il discepolo del Risorto è il testimone, come la Maddalena, dell’amore che è più forte della morte. Se alla nostra vita di credenti manca l’arte sublime dell’amore, abbiamo perso il proprium della nostra esistenza e come il sale privo di sapore, siamo destinati ad essere gettati via e calpestati dagli uomini. Paolo vuole che i suoi non si perdano nei grovigli delle strade degli uomini, ma che sappiano imboccare la via giusta, l’unica che rende felici. Ecco perché la vita dell’Apostolo è come una freccia che indica la direzione da prendere.

Ai genitori ed educatori nella fede sembra rivolgersi la dinamica che Paolo presenta con una disarmante semplicità. Siamo chiamati ad insegnare l’arte del sublime e a spingere gli uomini a tenere fisso lo sguardo sulle vie che meglio aiutano l’uomo ad essere se stesso, a lavorare sulla propria interiorità perché nel terreno del cuore fiorisca il vero bene. In questo gli educatori, in primo luogo i genitori, hanno una responsabilità maggiore perché sono chiamati ad essere esperti dell’arte del sublime, a proporre ciò che conoscono e sperimentano nel rapporto di coppia e a conoscere, con sempre maggior impegno, quanto indicano agli altri. Questo non significa che i genitori devono stare su un livello superiore rispetto ai figli, ma che accompgano i figli nella consapevolezza che nel cammino, educando, continuano ad imparare anche dalle provocazioni che ricevono nella relazione educativo. Nessuno nasce formato e nessuno può dire di essere preparato per generare ed educare gli altri alla vita bella secondo il Vangelo. Ciascuno deve crescere nella consapevolezza che non si finirà mai di imparare e di insegnare, di apprendere e di donare, in quella circolarità che è trasmissione della propria esperienza lungo la strada di Emmaus dove è Cristo che ci guida, illumina e sostiene, misteriosamente. Le nostre comunità ecclesiali e religiose, le nostre famiglie hanno bisogno di autentici testimoni del sublime, dell’amore vero, coraggioso, che rende la vita una straordinaria avventura, spinti dalla potenza di Dio. è così difficile per le nostre parrocchie educare al gusto dell’amore sublime? È così fuori dal sentire comune che una comunità religiosa viva l’arte della gratuità nel dono di sé all’interno della propria comunità e nelle relazioni con l’esterno? Non dovrebbe forse essere questa la normalità della nostra esistenza?

Se la Chiesa smette di insegnare la via del sublime, non è più la comunità del Cristo crocifisso per amore; se gli sposi cristiani abdicano alla loro vocazione di vivere la sublimità dell’amore, pur tra gli alti e bassi della una vita, la grazia sacramentale non viene sfruttata al massimo e l’esistenza perde di mordente. È necessario riprendere con rinnovato impegno la sfida educativa e fare delle nostre comunità e famiglie delle scuola dove si insegna l’amore nei gesti e nelle parole che lo Spirito abita, trasforma e plasma.

Non tutti gli amori sono uguali

Nella Scrittura l’uso dei termini non è casuale, non solo perché la sensibilità e l’esperienza dell’Antico Testamento è il retroterra della composizione dei vari testi, ma anche perché gli autori, figli dei loro tempi, risentono delle abitudini culturali e linguistiche dell’epoca.

L’annuncio cristiano, pur avendo come matrice il mondo semitico, venne ben presto espresso con categorie greco-romane, senza per questo tradire lo specifico della rivelazione di Dio in Cristo. Ecco perché non basta, nel nostro caso, parlare di amore perché la semplice traduzione letterale potrebbe tradire il vero senso espresso dall’Apostolo. Per questo motivo, alcuni preferiscono parlare di Inno alla carità, quasi a preservare tutta la ricchezza teologica che il testo presenta. Difatti, l’amore di cui si parla nella Scrittura è agape, ovvero amore gratuito ed oblativo, che persegue il bene dell’altro senza appropriarsene (come nell’amore erotico) e che va oltre nell’intensità al semplice rapporto di amicizia (la è filía nel mondo greco). Il carisma dei carisma, la regina delle virtù, la ragione che rende l’esistenza umana partecipe del mistero stesso di Dio è l’amore-carità. Paolo non intende parlare, come erroneamente spesso si crede, del sentimento umano che sorge spontaneamente nel cuore e che si traduce in desiderio bello, attrazione gioiosa, necessità della persona amata della quale si sente fino allo spasimo la mancanza. Questo l’amore umano cantato dalla poesia – si pensi a Paolo e Francesca di Dante oppure a Romeo e Giulietta di Shakespeare – o investigata dai filosofi – il Simposio di Platone è proprio l’incontro di sette saggi che discutono sulla natura dell’amore – oppure dal mito – si pensi alla favola di Amore e Psiche o ancora al racconto di Narciso – non è il tema del canto ispirato di Paolo.

L’amore è carisma, è dono di Dio ed in quanto tale il Signore ne è la sorgente, sua la potenza e il vigore, Egli è la causa della gioia che ne viene nei cuori dei fedeli. Di questo amore, quello umano è una sbiadita immagine, dove per umano si intende quello che porta l’uomo ad essere schiavo di se stesso, mai ad armonizzare perfettamente cuore e mente, volontà ed attrattive, desideri e sogni insieme alle necessità reali che si scorgono nella vita. L’amore di Dio è carità e, perché di Dio, ha i suoi caratteri, il suo profumo, la sua vita. Eterno, fedele, gratuito, libero e liberante la carità è la potenza dell’amore forte più della morte. Al pari della sapienza, chi conosce ed ha sperimentato la carità di Cristo può dire: “La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la sua ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile” (Sap 7,8). Ecco perché Paolo può dire di considerare tutto spazzatura, dinanzi alla sublimità del mistero di Cristo (Fil 3). Nulla vale più dell’amore di Cristo, per questo il cuore dell’Apostolo esplode di gioia “Chi ci separerà dall’amore di Dio”. Senza questo amore, nulla vale né il parlare in lingue – il riferimento è al carisma ampiamente ricercato a Corinto – come anche la profezia e la scienza. La carità di Dio vale più della vita perché è la vita di Dio in noi.

Le nostre parole sono povere nel descrivere il Dio carità. Esegesi della Scrittura è la vita dei Santi: Francesco di Assisi sul monte de La Verna chiede di sentire nel cuore tutto l’amore che Cristo provò nell’ora della sua passione e nelle membra tutto il suo dolore e, dal sacro Monte, scese con i segni vivi della Passione del Signore e nel cuore lo inondava tutto il suo fuoco d’amore; Caterina da Siena canta “O abisso di carità! Qual cuore non si sentirà gonfio di commozione nel vedere tanta altezza discesa a tanta bassezza”; basta vedere l’estasi di s. Teresa del Berbini per sentire nel cuore il desiderio di essere trafitti dal dardo dell’amore divino che l’angelo tiene stretto tra la mano per sperimentare nel cuore il dono della trasverberazione.

Dio è amore e carità e di tale amore e carità Gesù è il volto, l’immagine, la carne, sì, la nostra carne che trasuda della carità del Figlio di Dio fatto uomo. Trasudare di amore, questo fa Gesù. Il suo sguardo comunica la misericordia, il suo tratto la dolcezza del buon Pastore, le sue mani afferrano il peccatore e lo traghettano alla vita, la sua parola risuscita i morti e li strappa all’inferno. Egli è lo sposo che ha amato la sua Chiesa e per lei ha offerto di buon grado la sua vita. È necessario guardare verso Gesù sempre.

Voglio, mio Signore entrare nel tuo cuore trafitto dal colpo di lancia perché, come la colomba del Cantico dei Cantici, mi struggo al pensiero della tua carità. Se dell’amore del Padre tu sei l’abisso, voglio che la mia vita sia l’oceano che lo contiene; se tu della dolcezza di Dio sei il profumo, voglio che la mia esistenza sia l’ampolla che lo raccoglie; se la carità ti rende pane per gli uomini, trasforma i miei giorni in sacco che lo custodisce. Inebriami di te, o Amore che sgorghi dal cuore del mio diletto Signore; riempimi di te, o acqua d’amore che dove passi fai fiorire nuova la vita del dono. Voglio traboccare d’amore come il calice del cuore del mio diletto Signore, voglio trasudare di misericordia come il Rabbì che, unto della potenza del Paraclito si lascia vincere dalla compassione delle folle stanche e sfinite; voglio divenire fiamma incandescente del fuoco dello Spirito-Amore; voglio consumarmi nel roveto dell’amore che mai si estingue per il mistero delle offese ricevute, voglio che il male non spenga l’amore che il Signore riversa in me. Desidero in me l’amore che mi rende vivo tra i fratelli, l’amore che santifica i miei giorni, la carità che sostiene i miei passi lungo le strade della morte e del dolore. O Amore del mio Dio, Spirito-Amore riversato in me prendi di me possesso pieno perché di te che sei la sorgente io sia la brocca che ne dispensa l’acqua; di te che sei il profumo io sia il vaso che, rotto dagli uomini, la fragranza tua disperde; di te che sei la luce io sia la lampada posta sul candelabro della croce per far luce morendo a me stesso pe ritrovare in Cristo la vita.

Nella croce, il segreto dell’amor sublime

Il senso pieno di quanto Paolo scrive lo possiamo trovare solo nel mistero della croce di Gesù, perché l’amore crocifisso è magnanimo, benigno, non invidia e non manca di rispetto, né cerca il suo interesse, è un amore che non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità. Più leggi l’inno alla carità guardando verso la croce e più ti accorgi che Gesù compie le Scritture antiche e di quelle nuove è il realizzatore ante litteram. È necessario leggere questa pagina di Paolo guardando alla croce, perché solo il Cristo passionato – come lo chiama s. Angela da Foligno – può essere il nostro modello nell’arte dell’amor sublime.

Solo guardando verso Gesù potremo imparare da Lui a lasciare allo Spirito-Amore di dilagare in noi per spargere nel mondo quella forza nuova che trasforma la storia.




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