19 Novembre 2024
Il figlio “à la carte”, il dramma dell’utero in affitto dalla parte dei figli
Da ieri è in vigore in Italia la legge che decreta l’utero in affitto come reato universale e sui media, da giorni, abbondano le storie sul dolore e il dramma delle coppie che non potranno avere figli per colpa di questa ingiusta condanna. Vorrei innanzitutto dire che la loro sofferenza merita da parte di tutti un grande rispetto. Desiderare un figlio, poter avere il dono di un figlio da amare, coccolare, far crescere è un’esperienza unica e irripetibile. Nessuno dovrebbe scagliarsi contro queste persone, mai. Aiutarle, sostenerle, presentare loro una strada diversa per vivere l’esperienza genitoriale è uno dei compiti più importanti della società e anche della comunità ecclesiale. È un dramma rendersi conto che quel figlio non arriverà mai attraverso il proprio grembo.
Nello stesso tempo è drammatico avvalorare la pratica dell’utero in affitto marciando sul dolore di queste coppie, convinte da una cultura individualistica ed economica. Il figlio non si compra, non si ordina à la carte, nonostante una coppia possa permettersi economicamente di farlo. Punto. La legge Varchi costituisce una svolta importantissima non solo dalla prospettiva giuridica ma soprattutto culturale. Non è stata promulgata contro qualcuno ma a favore di qualcuno: i figli, appunto.
Di loro non si parla. Cosa dicono quando prendono coscienza di essere nati attraverso l’utero in affitto? Quali sono i loro sentimenti quando si accorgono che per nove mesi, 270 giorni circa, notte e giorno, sono stati nel grembo di una donna che poi alla nascita li ha ceduti ai genitori committenti? Ascoltiamo una di questi figli. Lei è Olivia Maurel. I genitori vivevano in Francia, erano benestanti. Quando decisero senza successo che desideravano un figlio, il padre aveva 37 anni e la madre 48. Si presentò l’occasione di assoldare una donna americana del Kentucky, che fornì gli ovuli e l’utero per la gestazione. Nacque Olivia, che oggi ha 33 anni, è madre di tre bambini e dedica la sua vita per l’abolizione universale della maternità surrogata.
Cosa è accaduto nel cuore e nella mente di Olivia? “È successo che appena nata ho subìto il trauma dell’abbandono: non sono stata messa tra le braccia di chi mi ha portata in grembo per nove mesi, che parlava con me, che mi nutriva dentro di sé, ma sono stata consegnata ad altri per finalizzare il contratto con chi aveva pagato perché io venissi al mondo. Mi è stato chiesto, neonata, di sacrificare mia madre e le mie origini per i desideri degli adulti” dice Olivia in un’intervista ad Avvenire.
“Io amo i miei genitori. È difficile fare capire che la mia battaglia non è contro le persone, ma contro un sistema” aggiunge Olivia. La notizia della modalità della sua nascita avvenuta quando era già grande ha inferto in lei un trauma incredibile. Ha sofferto di dipendenze, ha tentato il suicidio, non riuscivo a costruire relazioni perché temeva sempre di essere lasciata. Non ha finito gli studi. “C’era un segreto in famiglia e dentro di me sapevo di essere una bambina fatta su ordinazione, come una merce. Vorrei che nessun altro bambino soffrisse come ho sofferto io alla costante ricerca di conoscere la verità sulle mie origini”.
Siamo abituati ad ascoltare belle storie di coppie committenti che coronano il sogno di diventare genitori, o di ragazzi contenti di essere nati attraverso l’utero in affitto. Nessuno presenta l’altra faccia della medaglia, nessuno dice veramente come stanno le cose. Spesso le persone non parlano della loro sofferenza perché hanno paura di contrastare la narrazione corrente. “Anche a me costa molto: a volte sono chiamata omofoba, fascista, ultraconservatrice, bugiarda…” dice Olivia “Da quando ho iniziato a impegnarmi per l’abolizione universale della surrogata, nel giugno 2023, ho pagato un prezzo alto: ho perso l’affetto di molti familiari, sono stata accusata di qualsiasi misfatto. Ma in cambio ho sentito dentro di me forza, verità, morale…”. Tutto quello che ipocritamente silenziamo. Grazie Olivia.
Il Caffè sospeso...
aneddoti, riflessioni e storie di amore gratuito …quasi sempre nascoste.
Il caffè sospeso è un’antica usanza a Napoli. C’è chi dice che risale alla Seconda Guerra Mondiale per aiutare chi non poteva permettersi nemmeno un caffè al bar e c’è chi dice che nasce dalle dispute al bar tra chi dovesse pagare. Al di là delle origini, il caffè sospeso resta un gesto di gratuità. Nella nuova rubrica che apre l’anno 2024, vorrei raccontare storie o suggerire riflessioni sull’amore gratuito e disinteressato. Quello nascosto, feriale, quotidiano che nessuno racconta, che non conquisterà mai le prime pagine dei giornali ma è quell’amore che sorregge il mondo, che è capace di rivoluzionare la società dal di dentro. Buon caffè sospeso a tutti!
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