LUTTO PRENATALE
Chi è causa del suo mal pianga se stesso? La Vigna di Rachele non la pensa così…
“Nessuno deve cercare di convincere una donna a non abortire, se poi si pentirà se la prenderà solo con se stessa, conviverà a vita col suo rimpianto, ma almeno sarà stata solo una sua scelta”, mi è stato detto da una ragazza. La Vigna di Rachele, opera di apostolato per persone che cercano guarigione interiore dopo un aborto, parte da un altro presupposto: parte della vicinanza e della prossimità.
Conoscete la Vigna di Rachele? Se andate a cercare informazioni nel loro sito, scoprirete che “La vigna di Rachele” è un’opera internazionale, presente in più di 40 Paesi del mondo, sorta con lo scopo di lenire le ferite che derivano dall’esperienza dell’aborto procurato.
Una volta, una ragazza pro-aborto, o, come preferisce definirsi lei, pro-choice, mi ha detto: “Nessuno deve cercare di convincere una donna a non abortire, nessuno deve offrirle insistentemente alternative. Trovo questo atteggiamento fuori luogo e paternalistico. La donna, invece, perfettamente in grado di scegliere da sé e per sé, deve essere libera di accedere all’aborto, se poi si pentirà – ma nessuno l’avrà influenzata o ostacolata – se la prenderà solo con sé stessa, conviverà a vita con il suo rimpianto, ma almeno avrà scelto da sola”.
Sola, insomma. Sola nella decisione e sola dopo: così deve essere la donna del futuro. Anche del presente. Sola, ma autodeterminata.
La Vigna di Rachele, invece, parte da un altro presupposto, che è quello della vicinanza e della prossimità: senza imporre, giudicare, predicare e acuire sensi di colpa, accoglie e aiuta ad elaborare la sofferenza di persone che, sapendo dell’esistenza di questo progetto, vi si accostano liberamente.
Se una donna che ha scelto l’aborto, oppure qualcun altro coinvolto nella pratica abortiva (padre del bambino, nonni, personale sanitario) porta nell’anima segni dolorosi, il programma offre l’opportunità di esaminare ciò che si è vissuto e di comprendere meglio i modi in cui questa perdita ha toccato e cambiato il proprio intimo.
“A causa dell’intorbidimento emotivo e del segreto che spesso circonda l’esperienza di aver interrotto una o più gravidanze, – si legge nel sito – le emozioni conflittuali, sia durante che dopo l’evento accaduto, possono restare irrisolte. Questi sentimenti sepolti possono comparire subito oppure molto in ritardo e possono manifestarsi in vari modi, incluso attraverso sintomi di ciò che ormai viene denominato ‘trauma post-aborto’”.
La Vigna di Rachele non è “psicoterapia fatta in gruppo”, bensì un percorso spirituale che si basa su un solido fondamento terapeutico.
Tutti possono partecipare, appunto: coppie sposate, madri, padri, nonni e familiari di bambini abortiti, così come personale sanitario coinvolto nell’interruzione di gravidanza. In tanti arrivano nella Vigna di Rachele alla ricerca di pace e guarigione interiore.
Perché parlare di queste iniziative? Perché nella nostra società manca quasi completamente una cultura prenatale.
Un esempio? Qualche giorno fa, in uno dei gruppi whatsapp di cui faccio parte si discuteva sulla vittoria di Trump.
Alcuni ponevano l’accento sul fatto che, con lui al potere, sarebbero stati messi in discussione “i diritti delle donne”. E con “diritti”, ovviamente, ci si riferiva all’aborto.
La conversazione è andata avanti un po’. All’inizio, l’ho seguita senza intervenire. Volevo capire bene le argomentazioni. A parlare erano soprattutto donne.
Ad un certo punto, non rispondere mi è stato impossibile e precisamente quando una ragazza ha affermato che l’aborto non è un omicidio, con questa motivazione: “Non stiamo parlando di un bambino già formato all’ottavo mese, stiamo parlando di un feto non ancora formato”.
Ho ripensato ai miei tre aborti spontanei, vissuti tutti nello stadio in cui il mondo grida che è un diritto abortire, perché nel grembo non c’è ancora “qualcuno”. Non ho potuto evitare di raccontare quello che ha significato per me perdere dei figli, anche se per una buona fetta dell’umanità quei piccoli concepiti erano tutto, fuorché bambini.
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“Scusate – ho detto – su questo tema sono particolarmente sensibile, perché ho vissuto tre aborti spontanei… Ne parlo senza vergogna, perché avere un figlio in qualsiasi stadio e perderlo in qualsiasi stadio non è una vergogna, semmai – nel caso della perdita nel grembo – è un grande dolore socialmente sottovalutato. Personalmente, li ho considerati tutti figli (indipendentemente da quanto erano formati). Penso che sia bene anzitutto per le donne non sminuire ciò che accade dentro di loro. Sapere che anche una sola donna si è sentita costretta ad abortire (ne ho conosciute personalmente almeno 3!) mi genera un dolore enorme, soprattutto ripensando a quello che si prova quando lo vivi (ti si spezza qualcosa dentro). Ho parlato sia con donne che lo hanno subito come me, sia con donne che lo hanno provocato e ci siamo ritrovate a piangere lo stesso dolore. Vi prego di affrontare con assoluta delicatezza questo argomento… Il fatto che non sia già formato come se avesse otto mesi non è così rilevante ai fini di come ci si può sentire dopo averlo vissuto”.
A quel punto, sebbene mi sia stata mostrata vicinanza, qualcuno ha voluto sottolineare che l’aborto spontaneo è molto diverso da quello provocato: nel primo caso è una tragedia (perché il figlio lo vuoi), nel secondo è una liberazione, perché quel figlio non lo vuoi.
Quindi, in altre parole, i desideri sono al centro di tutto, sono i criteri ultimi del bene e del male, di ciò che è gusto e di ciò che è ingiusto. La libertà è la “norma ultima” della realtà. Eppure, non funzioniamo così. Siamo soggetti dotati di desideri ed emozioni, certo, ma anche capaci di moralità, dotati di una coscienza. Non è vero che una donna che procura un aborto è sempre serena e rilassata. Certo, la cultura odierna fa di tutto per minimizzare questo gesto, o meglio, per descriverlo come strumento di autoaffermazione e sicuramente se un atto è legittimato e socialmente avvallato è più facile che una persona si faccia “meno scrupoli” nel compierlo, ma se vi fate un giro sul web troverete più storie di donne che, pur dicendo, forse, di non essersi pentite (che poi il pentimento di una persona lo conosce solo Dio), ammettono di combattere con un senso di colpa latente e di avere pensieri più o meno frequenti su come sarebbe stato quel figlio mai nato.
“Non voglio accendere una polemica. Rispetto e ascolto i diversi pareri. – ho detto ai miei interlocutori, in quella chat – Mi riferivo solo al fatto che un figlio più o meno formato resta figlio per chi lo porta dentro. Almeno per me è stato e resta così… E mi sono confrontata con tante donne che hanno avuto il mio stesso sentire. Mi ferisce sentire sminuire ‘un feto’ come se fosse poca cosa perché per quella ‘poca cosa’ ho affrontato lutti difficilissimi e ripeto che non sono l’unica (sia tra chi lo ha subito sia tra chi lo ha procurato). Di recente ho raccolto una testimonianza di una donna costretta dalla famiglia perché giovane ad abortire che chiedeva aiuto sui social in quanto aveva istinti suicidi. Era solo un feto? Per una madre quasi mai lo è, anche qualora scelga di interrompere la gravidanza”.
Quando hanno continuato a ripetere che aborto spontaneo e aborto procurato erano due cose sostanzialmente diverse, mi sono permessa di parlare della “Vigna di Rachele”.
Da quando l’aborto è entrato nella mia vita, ho capito che tante persone sono alle prese con il mio stesso dolore. forse io stessa sarei rimasta sorpresa prima di passarci dal sapere che chi lo procura e chi lo subisce può trovarsi a vivere le stesse emozioni, ma da quando ci sono passata la cosa non mi stupisce più: che lo si voglia o meno, l’aborto è un’esperienza traumatica, con buona pace delle eccezioni che dicono di essere a postissimo dopo aver abortito. A mio modestissimo parere, non hanno ancora pienamente realizzato quello che hanno vissuto.
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